IL SILENZIO

Il silenzio oggi non esiste e se esiste è perché lo sei andato a cercare. Amo il silenzio e a volte lo ho anche cercato. Il nostro mondo è tutt’altro che silenzioso, anzi a volte se non si sente nulla quasi si è presi dall’angoscia. “Mi piacerebbe ritirarmi in un bosco, lontano dalla civiltà” quante volte lo abbiamo sentito ripetere dall’amico o collega. Ma per quanto tempo avrebbe resistito: un giorno, due giorni , una settimana e poi si ha proprio la necessità di ascoltare un rumore che può essere una voce umana o un motore. Sul Cammino di Santiago, non quello che tutti percorrono, ma uno di quei Cammini quasi nascosti e solitari, il Sanabrese, La Plata, mi sono trovato ad ascoltare il silenzio, il camminare sentendo solo il rumore dei passi o il ticchettio del bastone, ma non è mai stato un silenzio perfetto. Ero sul Lesima, da solo, ed ero convinto di poter godere del silenzio, ma lontano, dalle valli circostanti il monte, salivano rumori, affievoliti, una motosega nel bosco, un lontano trattore pulsante. Un tardo pomeriggio invernale dovevo salire al Monte Chiappo per aprire le valvole del gas delle bombole che stavano in un bunker a una cinquantina di metri dalla stazione a monte. Solo in mezzo a tutto quel biancore mi sono fermato ad ascoltare il silenzio. Il cielo era terso e il sole stava tramontando, il freddo pungente ma quasi godibile, sopportabile. Stavo proprio godendo di quel incredibile silenzio, nemmeno lo stormire delle foglie o il verso di qualche animale. Silenzio assoluto. Un godimento da assaporare in solitudine. Stavo richiudendo la porticina del bunker delle bombole, dopo aver aperto le valvole che davano il gas al rifugio, quando alle mie spalle risuonò un “Buonasera”. Il sangue mi si congelò e non solo per il freddo, mi voltai e mi si palesò un personaggio che armato di ciaspole se ne veniva da Salogni e se ne andava a Capanne di Cosola. Fine del silenzio, anzi inizio di una conversazione. Un incontro anche piacevole ma anche la fine di un godimento silenzioso.

“Mi piaci quando taci perché sei come assente, e mi ascolti da lungi e la mia voce non ti tocca. Sembra che gli occhi ti sian volati via e che un bacio ti abbia chiuso la bocca.”

versi tratti dalla poesia "Mi piace quando taci" Pablo Neruda

Sempre per bontà vostra GIU.BA.

MARESCIALLI COMANDANTI MUNDO: Avevo un Capitano, Comandante di compagnia quando ero a Pinerolo, con il quale, pur mantenendo il giusto rapporto di subordinazione, avevo un certa “contubernalità”. Era una persona molto attiva e creativa, ogni giorno arrivando in caserma mi chiamava e mi esponeva un nuovo progetto o attività che lui riteneva molto utile al mantenimento del morale ma soprattutto le attività della truppa per tenerla attiva e impegnata in un luogo che non contava nulla in termini militari. Ma ogni qual volta egli proponeva al Colonnello Comandante una sua idea, c’era sempre un maresciallo o dei marescialli che avevano da recriminare sul suo operato. Un giorno deluso per l’ennesimo no, oppure “aspettiamo”, oppure un “non ora”, egli tornava deluso in ufficio sino a dirmi un giorno:” Non c’è niente da fare: marescialli comandanti mundo”, nel senso che essendo questi sottufficiali più anziani di lui ed alcuni nientemeno che reduci da El Alamein, il colonnello doveva anche optorto collo, prendere in considerazione i loro atteggiamenti e scendere a compromessi con loro. Ma poi nella vita o constatato che non solo nell’esercito si trovavano situazioni del genere, c’è sempre un maresciallo o una marescialla che pone dei paletti o addirittura li mette fra le ruote. In azienda, (le segretarie particolari del VERY BIG BOSS), nella pubblica amministrazione, nelle associazioni più o meno volontaristiche c’è sempre uno al di sopra del leader che più o meno velatamente dirige l’orchestra. I poteri forti, come dice qualcuno, ma anche non necessariamente quelli. In questi ultimi tempi è uscito un libro, di autore anonimo che descrive proprio quello che succede dietro le quinte del potere e a volte al di sopra del potere stesso. Mi permetto di proporvi una recensione di questo libro anche per capire chi comanda veramente nella vita pubblica:

MARESCIALLI COMANDANTI MUNDO: Avevo un Capitano, Comandante di compagnia quando ero a Pinerolo, con il quale, pur mantenendo il giusto rapporto di subordinazione, avevo un certa “contubernalità”. Era una persona molto attiva e creativa, ogni giorno arrivando in caserma mi chiamava e mi esponeva un nuovo progetto o attività che lui riteneva molto utile al mantenimento del morale ma soprattutto le attività della truppa per tenerla attiva e impegnata in un luogo che non contava nulla in termini militari. Ma ogni qual volta egli proponeva al Colonnello Comandante una sua idea, c’era sempre un maresciallo o dei marescialli che avevano da recriminare sul suo operato. Un giorno deluso per l’ennesimo no, oppure “aspettiamo”, oppure un “non ora”, egli tornava deluso in ufficio sino a dirmi un giorno:” Non c’è niente da fare: marescialli comandanti mundo”, nel senso che essendo questi sottufficiali più anziani di lui ed alcuni nientemeno che reduci da El Alamein, il colonnello doveva anche optorto collo, prendere in considerazione i loro atteggiamenti e scendere a compromessi con loro. Ma poi nella vita o constatato che non solo nell’esercito si trovavano situazioni del genere, c’è sempre un maresciallo o una marescialla che pone dei paletti o addirittura li mette fra le ruote. In azienda, (le segretarie particolari del VERY BIG BOSS), nella pubblica amministrazione, nelle associazioni più o meno volontaristiche c’è sempre uno al di sopra del leader che più o meno velatamente dirige l’orchestra. I poteri forti, come dice qualcuno, ma anche non necessariamente quelli. In questi ultimi tempi è uscito un libro, di autore anonimo che descrive proprio quello che succede dietro le quinte del potere e a volte al di sopra del potere stesso. Mi permetto di proporvi una recensione di questo libro anche per capire chi comanda veramente nella vita pubblica: "Io sono un'ombra. L'ombra del potere. Talvolta più potente del potere. Io sono il capo di gabinetto" Nel tempo delle dirette social, dei leader iperconnessi, della comunicazione come sostituzione dell'ideologia, c'è un angolo del potere che resta sconosciuto, evocato talvolta ma inaccessibile nei suoi meccanismi. La giuntura che lega le grandi burocrazie pubbliche alla classe politica. I politici vorrebbero e provano, in ogni stagione, a farne a meno. Ma non riescono a emanciparsene perché non possono. Una burocrazia ostile, o semplicemente non collaborativa, è in grado di impedire, confondere, rallentare qualsiasi decisione. In Italia la selezione dei capi di gabinetto avviene attraverso canali diversi di cooptazione. Ci sono i magistrati del Consiglio di Stato. Quelli della Corte dei conti. I professori universitari. I funzionari parlamentari. I burocrati di carriera, che agivano per decenni nelle pubbliche amministrazioni. Ciascuna categoria ha un suo codice di comportamento, regole di affiliazione, baronie, gelosie, ritualità, scandali, ricatti, mele marce, figure leggendarie. Ogni stagione segna una diversa forma di convivenza tra politica e burocrazia. Dalla Prima Repubblica a Berlusconi, da Renzi ai grillini. La connivenza e la lusinga si alternano alle epurazioni e alle minacce. Ma questo accade sulla scena pubblica. Sotto traccia va in scena uno spettacolo diverso. Fatto di relazioni, alleanze, trasversalismi, compromessi. la testimonianza di un 'grand commis' che ha lavorato per diversi ministri di diverso colore politico”. Ora ho capito (ma da mò) che le parole del Capitano erano una facile profezia, c’è sempre un maresciallo che con aria furbesca comanda lui al di sopra del potere. T’è capi Giuan. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

I CIELI ATLANTICI: I cieli atlantici sono alti profondi ed infiniti e le nuvole che vi navigano sono alte e bianche e si perdono inseguendosi all’orizzonte verso Ovest. I cieli atlantici promettono pioggia e vento ma quando torna, il sole asciuga la pelle e i vestiti. I monti sono lontani e all’alba sembrano blu con la loro siluette che mano a mano diventa viola indaco e rosa. I cieli atlantici sono preludio di spazi oceanici e di cavalloni bianchi che si infrangono sulla costa in un turbinio di schiuma e di vapori salmastri. Non sono arrivato subito sin laggiù dove la terra finisce, ma il mare oceano si faceva sentire, faceva sentire la sua presenza, il suo profumo. Quando è stata l’ultima volta che vi siete emozionati davanti ad una espressione della natura. Io mi sono emozionato quando ho visto l’oceano Atlantico. Ci sono arrivato piano piano. Lo intravidi durante il Cammino del Nord, dopo Oviedo, ma ero alto sulle colline della costa e poi pioveva ed ero imbacuccato sotto il poncho. Ma poi mano a mano strada facendo mi sono avvicinato sempre più sino a sentirne l’odore durante una bassa marea, ma era ancora lontano. Un odore forte, di pesce marcio, di salmastro, di salvia selvatica. Ma ero ancora lontano. Sono poi sceso a Luarca, ma anche li il mare oceano era oltre le dighe foranee che ne proteggevano il porto. Ma poi finalmente sul tratto che da Finisterre mi portava a Muxia dopo una curva, appena fuori dal bosco, alzo la testa dopo una salita e ti accorgi che dopo quella curva ti appare finalmente l’oceano. Laggiù, blu, con la schiuma bianca che incornicia gli scogli finalmente vicino. Un sentiero attraverso il basso bosco sino alla spiaggia e finalmente via le scarpe e i piedi nell’acqua. Gelida ma corroborante. Abituati a quella immensa pozzanghera che è il Mediterraneo, ti rendi conto che la terra che si trova oltre il tuo orizzonte è un altro mondo ed è qui che finisce l’Europa, l’ovest di ogni ovest del vecchio continente. Ci sono fari solitari su speroni di rocce dove il mare si infrange sollevando bianchi spruzzi di schiuma. Ma è al tramonto che l’emozione raggiunge il suo apice, il Sole che sprofonda nell’oceano tingendo il cielo di rosso e poi di viola in un silenzio irreale e resti affascinato ed ipnotizzato dallo spettacolo. Ecco i cieli Atlantici. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

I CIELI ATLANTICI: I cieli atlantici sono alti profondi ed infiniti e le nuvole che vi navigano sono alte e bianche e si perdono inseguendosi all’orizzonte verso Ovest. I cieli atlantici promettono pioggia e vento ma quando torna, il sole asciuga la pelle e i vestiti. I monti sono lontani e all’alba sembrano blu con la loro siluette che mano a mano diventa viola indaco e rosa. I cieli atlantici sono preludio di spazi oceanici e di cavalloni bianchi che si infrangono sulla costa in un turbinio di schiuma e di vapori salmastri. Non sono arrivato subito sin laggiù dove la terra finisce, ma il mare oceano si faceva sentire, faceva sentire la sua presenza, il suo profumo. Quando è stata l’ultima volta che vi siete emozionati davanti ad una espressione della natura. Io mi sono emozionato quando ho visto l’oceano Atlantico. Ci sono arrivato piano piano. Lo intravidi durante il Cammino del Nord, dopo Oviedo, ma ero alto sulle colline della costa e poi pioveva ed ero imbacuccato sotto il poncho. Ma poi mano a mano strada facendo mi sono avvicinato sempre più sino a sentirne l’odore durante una bassa marea, ma era ancora lontano. Un odore forte, di pesce marcio, di salmastro, di salvia selvatica. Ma ero ancora lontano. Sono poi sceso a Luarca, ma anche li il mare oceano era oltre le dighe foranee che ne proteggevano il porto. Ma poi finalmente sul tratto che da Finisterre mi portava a Muxia dopo una curva, appena fuori dal bosco, alzo la testa dopo una salita e ti accorgi che dopo quella curva ti appare finalmente l’oceano. Laggiù, blu, con la schiuma bianca che incornicia gli scogli finalmente vicino. Un sentiero attraverso il basso bosco sino alla spiaggia e finalmente via le scarpe e i piedi nell’acqua. Gelida ma corroborante. Abituati a quella immensa pozzanghera che è il Mediterraneo, ti rendi conto che la terra che si trova oltre il tuo orizzonte è un altro mondo ed è qui che finisce l’Europa, l’ovest di ogni ovest del vecchio continente. Ci sono fari solitari su speroni di rocce dove il mare si infrange sollevando bianchi spruzzi di schiuma. Ma è al tramonto che l’emozione raggiunge il suo apice, il Sole che sprofonda nell’oceano tingendo il cielo di rosso e poi di viola in un silenzio irreale e resti affascinato ed ipnotizzato dallo spettacolo. Ecco i cieli Atlantici. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

QUANDO ERAVAMO FELICI.. e non lo sapevamo 2.

Lavoro in banca

Stipendio fisso

Così mi piazzo e non se ne parla più

La 500 la prendo a rate e per l’estate mi faccio un vestito blu

Voglio andare a Como ogni domenica

Le mie ferie le voglia fare a Rimini

Giocare al totocalcio tutti i sabati

Per parlarne coi colleghi il lunedi!

Il lunedì…….Lavoro in banca……

COLAZIONEA ABBUFFET: Non è errore di stampa, ma proprio a “abbuffet” neologismo di “abbuffarsi”. Ho una grande esperienza in fatto di buffet, come organizzatore, quanto come utente. Anni 90’ a Milano, l’Università organizza il “Carreer day” ovvero quella giornata nella quale i laureandi o i neo laureati incontrano le grandi aziende in cerca di figure professionali. Previste una ventina di aziende con i propri uffici per la ricerca di risorse umane e circa seicento studenti o neo laureati. Vengo incaricato di organizzare una sorta di merenda a buffet per i “ragazzi” e una, a parte, per i funzionare delle aziende. Una tavolata lunga una dozzina di metri, un’isola per le bevande, circa dieci addetti. Cominciammo alle 14 del pomeriggio per essere pronti per le 18. Cortile interno della sede di via Sant’Agnese. Alacremente prepariamo il buffet con dolce e salato, focacce, vol au vent ripieni, mini panini con salume, bibite e succhi e anche qualche boule di aperitivo poco alcolico, poco vino tanta acqua e decine di bottiglie di acqua (era giugno). A un segnale, verso le 18, si è scatenato l’inferno, in meno di quaranta minuti, una tavolata di dodici metri circa, a cui erano servite quattro ore a prepararla e un centinaio di kilogrammi di cibo era tutto scomparso. Ho visto ragazze/signore riempire la borsetta di pizzette. Dissi al capo-camerieri: “conta i ragazzi non vorrei che si siano mangiati pure quelli”. All’isola delle bevande era presieduta da “Pino”. Lo raggiunsi e chiesi “come sei messo a bicchieri” e lui “benissimo, tolgo gli usati da destra, li metto alle mie spalle sul tavolo di servizio e li prendo da sinistra e continuo a servire sempre gli stessi”. Non sapevo se inorridire o sbellicarmi dal ridere. Ma veniamo alle “colazioni a buffet”. La mia prima esperienza in proposito la ebbi in Corsica una estate in un villaggio turistico. La mattina la colazione era a buffet. E qui devo dire che ho visto cose che voi umani non vi immaginerete mai: l’uomo ma anche la donna perdere ogni remora, la caduta in basso verso la degradazione nell’ abbrutimento totale nell’ appropinquare al tavolo delle colazioni. Scene Fantozziane, mancavano solo sangue e coltelli. Famiglie che si organizzavano con i bambini a prendere i posti al tavolo mentre i genitori a suon di gomitate riempivano i piatti di ogni ben di Dio, che poi regolarmente lasciavano intonsi sul loro tavolo, fette di torta, croissant, frutta, fette di prosciutto crudo da sfamare un battaglione di alpini al ritorno da una marcia, “mentre noi ci caliamo un maiale sano sano con tutti li peli, c’è chi muore di fame” (Cetto Laqualunque docet). Sono quelli che poi durante l’anno: solo un caffè di corsa mentre si fanno il nodo alla cravatta e poi saltano dal balcone per prendere l’autobus al volo sotto casa (e qui è Fantozzi che docet). Ma già l’anno passato in albergo le cose parevano cambiate, c’era il buffet ma era coordinato dal genitore/padrone dell’albergo: tu chiedevi e lui ti serviva il tuo piatto: due brioches, una fetta di torta, una ciottolina di yogurt mentre le bevande calde e fredde erano servite dal cameriere al tavolo. Anche il bis volendo. L’albergo sicuramente risparmiava il 50% e non si buttava via cibo non utilizzato. Temo, ma temo seriamente che il tempo degli sprechi si stia esaurendo. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

COLAZIONEA ABBUFFET: Non è errore di stampa, ma proprio a “abbuffet” neologismo di “abbuffarsi”. Ho una grande esperienza in fatto di buffet, come organizzatore, quanto come utente. Anni 90’ a Milano, l’Università organizza il “Carreer day” ovvero quella giornata nella quale i laureandi o i neo laureati incontrano le grandi aziende in cerca di figure professionali. Previste una ventina di aziende con i propri uffici per la ricerca di risorse umane e circa seicento studenti o neo laureati. Vengo incaricato di organizzare una sorta di merenda a buffet per i “ragazzi” e una, a parte, per i funzionare delle aziende. Una tavolata lunga una dozzina di metri, un’isola per le bevande, circa dieci addetti. Cominciammo alle 14 del pomeriggio per essere pronti per le 18. Cortile interno della sede di via Sant’Agnese. Alacremente prepariamo il buffet con dolce e salato, focacce, vol au vent ripieni, mini panini con salume, bibite e succhi e anche qualche boule di aperitivo poco alcolico, poco vino tanta acqua e decine di bottiglie di acqua (era giugno). A un segnale, verso le 18, si è scatenato l’inferno, in meno di quaranta minuti, una tavolata di dodici metri circa, a cui erano servite quattro ore a prepararla e un centinaio di kilogrammi di cibo era tutto scomparso. Ho visto ragazze/signore riempire la borsetta di pizzette. Dissi al capo-camerieri: “conta i ragazzi non vorrei che si siano mangiati pure quelli”. All’isola delle bevande era presieduta da “Pino”. Lo raggiunsi e chiesi “come sei messo a bicchieri” e lui “benissimo, tolgo gli usati da destra, li metto alle mie spalle sul tavolo di servizio e li prendo da sinistra e continuo a servire sempre gli stessi”. Non sapevo se inorridire o sbellicarmi dal ridere. Ma veniamo alle “colazioni a buffet”. La mia prima esperienza in proposito la ebbi in Corsica una estate in un villaggio turistico. La mattina la colazione era a buffet. E qui devo dire che ho visto cose che voi umani non vi immaginerete mai: l’uomo ma anche la donna perdere ogni remora, la caduta in basso verso la degradazione nell’ abbrutimento totale nell’ appropinquare al tavolo delle colazioni. Scene Fantozziane, mancavano solo sangue e coltelli. Famiglie che si organizzavano con i bambini a prendere i posti al tavolo mentre i genitori a suon di gomitate riempivano i piatti di ogni ben di Dio, che poi regolarmente lasciavano intonsi sul loro tavolo, fette di torta, croissant, frutta, fette di prosciutto crudo da sfamare un battaglione di alpini al ritorno da una marcia, “mentre noi ci caliamo un maiale sano sano con tutti li peli, c’è chi muore di fame” (Cetto Laqualunque docet). Sono quelli che poi durante l’anno: solo un caffè di corsa mentre si fanno il nodo alla cravatta e poi saltano dal balcone per prendere l’autobus al volo sotto casa (e qui è Fantozzi che docet). Ma già l’anno passato in albergo le cose parevano cambiate, c’era il buffet ma era coordinato dal genitore/padrone dell’albergo: tu chiedevi e lui ti serviva il tuo piatto: due brioches, una fetta di torta, una ciottolina di yogurt mentre le bevande calde e fredde erano servite dal cameriere al tavolo. Anche il bis volendo. L’albergo sicuramente risparmiava il 50% e non si buttava via cibo non utilizzato. Temo, ma temo seriamente che il tempo degli sprechi si stia esaurendo. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

FERIA D'AGOSTO

FERIA D’AGOSTO In ferie da cosa??: Ci siamo, come il Natale anche le ferie in agosto quando arrivano arrivano. Ho troppi anni oramai ma da quando mi ricordo in agosto si sono sempre fatte le ferie. Ho smesso di andare al mare in estate da quando ho cominciato a lavorare con i miei e nel nostro lavoro ad agosto era il mese dove lavoravamo di più. Il destino ha voluto che anche poi nell’arco degli anni successivi mi trovassi nella condizione di lavorare ad agosto, i 15 d’agosto in Cattolica quando ero nella “vigilanza” e mi godevo una Milano deserta e silenziosa e in quei giorni di assenza delle attività facevo il giro di controllo delle chiusure in bicicletta pedalando nei chiostri del Bramante (progettati e realizzati nel 1497 altro che ciclabile Voghera Varzi). Ho cambiato ruolo negli anni successivi e per diletto sono finito ad a fare quello che oggi si chiama “animazione” a Pian del Poggio e anche li potevo andare al mare con la mia famiglia ma solo dopo il 20 del mese di agosto. Sono poi finito a Piacenza dove sono stato coinvolto nelle ristrutturazioni dei collegi e delle mense dell’Università e il momento clou del lavoro era ad agosto. Mi ricordo un lunedì 16 agosto e mi stavo aggirando nel cantiere in corso e i lavori di pulizia delle sale e delle camere, quando mi squillò il telefono portatile (esisteva già il seguimi del centralino) era un mio “superiore” : “Ah sei li?” “Certo che sono qui e tu perché mi stai cercando” “Perché ero sicuro di trovarti li!”. Mi sono permesso di copiare un intervento di Sergio Marchionne. Su tutti resta un suo discorso diventato virale sulla rete, tenuto nel 2013 agli studenti dell’Università Bocconi di Milano.In quella occasione sottolineò con tono negativo che l’Italia è l’unico Paese in cui c’è un mese all’anno, agosto, in cui tutti gli uffici, o quasi, sono chiusi per ferie. “Nell’agosto del 2004 perdevo cinque milioni di euro al giorno, sono entrato in azienda e in ufficio non c’era nessuno. Mi è stato detto che il personale era tutto in ferie, e io mi son chiesto ma in ferie da cosa? In un’azienda che fondamentalmente è una multinazionale, in Brasile e in America in agosto si lavora, ma la Fiat chiudeva. Anche questo atteggiamento provinciale, cioè che noi siamo la Fiat, e stabiliamo quando il mondo va in vacanza, è una pirlata. Ogni volta che sono con gli americani, mi parlano benissimo dell’Italia, dicono che è bellissima, che amano andarci in vacanza; poi chiedo loro se vogliono investire nel Paese e rispondono di no”. Oggi le parole di Sergio Marchionne sono ancora, se possibile, divisive: lo sono sempre state, perché è stato uno di quei manager da amare o da odiare, senza compromessi. E’ però giusto ricordare che a chiudere tutte le attività nel mese di agosto era stata proprio la FIAT a partire dagli anni ‘60, anzi a Torino e in tutto il Nord Italia si aspettava proprio la chiusura della FIAT per dare inizio alle ferie e a quelle attività attinenti alle ferie. Mezza Italia si spostava da Nord a Sud e poi viceversa, la riviera Romagnola, la riviera Ligure e quella Tirrenica aspettavano quel momento che di fatto durava tutto il mese. E non è vero che negli altri stati europei le ferie sono scaglionate diversamente, forse solo ora dopo la pandemie e gli avvenimento connessi in questi anni. Proprio in occasione delle ristrutturazioni dei collegi, i sensori delle porte automatiche non funzionavano. Erano sensori prodotti in Germania, chiamai la ditta ma siccome eravamo alla fine di luglio mi risposero che il magazzino ricambi era in fase di chiusura “Richiami dopo le ferie”. Ed infatti alla fine di agosto richiamai e la risposta fu “Abbiamo appena aperto, il magazzino sta riorganizzandosi, ci vorranno ancora una decina di giorni”. Praticamente impiegai due mesi circa per avere i pezzi di ricambio dai pragmatici signori tedeschi. Ora sono sempre in ferie e queste situazioni mi sfiorano e mi scivolano addosso, di certo però posso sempre dire che io le ferie di agosto, di riffa o di raffa le ho sempre fatte. Scusate…. un particolare, in Brasile in agosto è pieno inverno, alcuni miei amici in questo mese vanno a sciare come noi a Febbraio. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

TIC TOC, TOC TIC E AMBARABA’ CICI’ COCCO’: In metrò a Milano sono rimasto stupito e quasi sorpreso nel notare che c’era un passeggero che non guardava lo schermo del telefonino, l’unico e solo a non avere in mano il supporto elettronico di rimbecillimento di distrazione di massa. Anche in chiesa, al cine e per strada. Una volta se vedevi uno per strada che sbraitava da solo a Voghera gli si urlava “Ciamè Parnet” che era il mitico autista delle ambulanze affinché provvedesse a trasferirlo in manicomio. Oggi è normale sentire e ascoltare conversazioni anche ad alta voce mentre passeggiano nervosamente. Ci sono liti e lasciate oramai in pasto a chiunque, dialoghi intimi e non solo. Con il viva voce, e vivaddio, ai semafori ascolti i colloqui dei vicini di corsia, almeno questi tengono le mani sul volante, ma altre centinaia di utenti della strada o parlano o ascoltano con il cellulare in mano, vicino all’orecchio o peggio ancora scrivono. Messaggi vocali, video chiamate da fare assolutamente mentre guidi, sempre più connessi sempre più in contatto con il mondo come se il mondo non avesse tempo di fermarsi un attimo. Poi c’è TIC TOC, bisogna farsi vedere ovunque e comunque, inviare la foto del piatto che mangi al ristorante, il tramonto, mentre si balla sul balcone di casa, come se agli altri la cosa interessasse, ma l’ultima follia è fotografarsi in bagno mentre si evacua. Ma qualcuno si ribella. Leggete queste due situazioni. La prima alla Scala di Milano. Squilla un telefonino e il maestro interrompe l’ orchestra: “Risponda pure, noi riprendiamo dopo”. Il maestro Riccardo Chailly ha fermato l'orchestra e ha rivolto queste parole a uno spettatore alla Scala di Milano, durante la seconda replica del concerto di Cori e sinfonie di Giuseppe Verdi. L'orchestra stava eseguendo il coro Patria oppressa, dal Macbeth.”Vedete, amici, siamo in molti in questo grande viaggio verdiano con l’orchestra e il coro della Scala, ma”, ha detto Chailly al pubblico, “non siamo soli, perché stiamo realizzando un’incisione per la Decca di Londra per cui saremo ancora molti di più. È una cosa importante. Patria oppressa ma con l’ostinato del telefonino non è possibile”. Dopo un lungo applauso del pubblico, ha ripreso l’esecuzione e la registrazione. Sui social in tanti hanno applaudito la scelta del direttore d'orchestra ribadendo che nelle sale, cinema e teatri non si tiene il telefono acceso o almeno lo si deve silenziare. Io mi sarei andato a seppellire nella prima aiuola che incontravo a Piazza Scala, mentre sono sicuro che l’autore della scenetta avrà pure lui applaudito compiaciuto invece di vergognarsi. Secondo episodio. Bob Dylan stanco di vedere spettatori che facevano foto con il telefonino, è sbottato: “posso continuare a cantare o devo mettermi in posa”. Infatti d’ora innanzi chi assisterà agli show di Dylan dovrà chiudere lo smartphone in una custodia, appositamente fornita dall’organizzazione, che verrà poi bloccata sul modello dei tag di sicurezza che ci sono nei negozi di abbigliamento. In pratica, il dispositivo resta in possesso del legittimo proprietario che però non può usarlo: per farlo, dovrà tornare nella postazione all’ingresso dove avverrà la procedura di blocco e sblocco e quindi spostarsi “nell’area di accesso al telefono”. Il leggendario artista non è comunque il primo a ricorrere a queste speciali custodie con serratura, per evitare che gli smartphone interrompano gli spettacoli. “Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà allora popolato da una generazione di idioti”.Albert Einstein. Ecco anche questo dovrebbe essere scritto sulla stele a lui dedicata che è stata collocata in via Roma qui a Casteggio. Sempre per bontà vostra.GIU.BA.

TIC TOC, TOC TIC E AMBARABA’ CICI’ COCCO’: In metrò a Milano sono rimasto stupito e quasi sorpreso nel notare che c’era un passeggero che non guardava lo schermo del telefonino, l’unico e solo a non avere in mano il supporto elettronico di rimbecillimento di distrazione di massa. Anche in chiesa, al cine e per strada. Una volta se vedevi uno per strada che sbraitava da solo a Voghera gli si urlava “Ciamè Parnet” che era il mitico autista delle ambulanze affinché provvedesse a trasferirlo in manicomio. Oggi è normale sentire e ascoltare conversazioni anche ad alta voce mentre passeggiano nervosamente. Ci sono liti e lasciate oramai in pasto a chiunque, dialoghi intimi e non solo. Con il viva voce, e vivaddio, ai semafori ascolti i colloqui dei vicini di corsia, almeno questi tengono le mani sul volante, ma altre centinaia di utenti della strada o parlano o ascoltano con il cellulare in mano, vicino all’orecchio o peggio ancora scrivono. Messaggi vocali, video chiamate da fare assolutamente mentre guidi, sempre più connessi sempre più in contatto con il mondo come se il mondo non avesse tempo di fermarsi un attimo. Poi c’è TIC TOC, bisogna farsi vedere ovunque e comunque, inviare la foto del piatto che mangi al ristorante, il tramonto, mentre si balla sul balcone di casa, come se agli altri la cosa interessasse, ma l’ultima follia è fotografarsi in bagno mentre si evacua. Ma qualcuno si ribella. Leggete queste due situazioni. La prima alla Scala di Milano. Squilla un telefonino e il maestro interrompe l’ orchestra: “Risponda pure, noi riprendiamo dopo”. Il maestro Riccardo Chailly ha fermato l'orchestra e ha rivolto queste parole a uno spettatore alla Scala di Milano, durante la seconda replica del concerto di Cori e sinfonie di Giuseppe Verdi. L'orchestra stava eseguendo il coro Patria oppressa, dal Macbeth.”Vedete, amici, siamo in molti in questo grande viaggio verdiano con l’orchestra e il coro della Scala, ma”, ha detto Chailly al pubblico, “non siamo soli, perché stiamo realizzando un’incisione per la Decca di Londra per cui saremo ancora molti di più. È una cosa importante. Patria oppressa ma con l’ostinato del telefonino non è possibile”. Dopo un lungo applauso del pubblico, ha ripreso l’esecuzione e la registrazione. Sui social in tanti hanno applaudito la scelta del direttore d'orchestra ribadendo che nelle sale, cinema e teatri non si tiene il telefono acceso o almeno lo si deve silenziare. Io mi sarei andato a seppellire nella prima aiuola che incontravo a Piazza Scala, mentre sono sicuro che l’autore della scenetta avrà pure lui applaudito compiaciuto invece di vergognarsi. Secondo episodio. Bob Dylan stanco di vedere spettatori che facevano foto con il telefonino, è sbottato: “posso continuare a cantare o devo mettermi in posa”. Infatti d’ora innanzi chi assisterà agli show di Dylan dovrà chiudere lo smartphone in una custodia, appositamente fornita dall’organizzazione, che verrà poi bloccata sul modello dei tag di sicurezza che ci sono nei negozi di abbigliamento. In pratica, il dispositivo resta in possesso del legittimo proprietario che però non può usarlo: per farlo, dovrà tornare nella postazione all’ingresso dove avverrà la procedura di blocco e sblocco e quindi spostarsi “nell’area di accesso al telefono”. Il leggendario artista non è comunque il primo a ricorrere a queste speciali custodie con serratura, per evitare che gli smartphone interrompano gli spettacoli. “Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà allora popolato da una generazione di idioti”.Albert Einstein. Ecco anche questo dovrebbe essere scritto sulla stele a lui dedicata che è stata collocata in via Roma qui a Casteggio. Sempre per bontà vostra.GIU.BA.

LA POTABILE: Sta incombendo su di noi, a causa della siccità, la concreta possibilità che ci siano provvedimenti riguardanti l’uso dell’acqua. In realtà certe restrizioni già avvenivano anche negli anni precedenti, ma questa mancanza di precipitazioni nevose d’inverno e piovose in primavera, sta mettendo a dura prova la falda acquifera anche se la distribuzione a livello domestico non (dico non) dovrebbe subire conseguenze. La distribuzione dell’acqua potabile per usi domestici arrivò a Casteggio nel 1891, il paese fu dotato da questo servizio così da come si legge dal settimanale Casteggiano “Il Pistornile” proprio in quell’anno. Non sono a conoscenza di come si facesse prima, se c’erano dei pozzi in ogni casa, se c’erano rubinetti, se esistevano delle tubature o se si sono approntate in questa occasione, l’acqua allora veniva pompata con quei marchingegni che la “succhiavano” dai fontanili e la gente si riforniva con i secchi. Una cosa simile esiste ancora a La Valletta poco prima della nostra panchina gigante, con una mano si azione il lungo braccio della pompa e da un tubo fuoriesce l’acqua. A dare notizia dell’arrivo dell’acqua potabile a quei tempi fu proprio il settimanale di cui vi ho parlato prima con una poesia/filastrocca illustrata sicuramente dall’eclettico Alessandro Maragliano (lo stile è il suo e probabilmente anche il testo), visto che era il promotore e l’autore di questi fogli quasi sempre a fini di beneficenza.  Ecco il testo: L’ACQUA POTABILE: Evviva la potabile Che viene dalla Costa Come la donna amabile Che Dio dall’uom staccò Con questa almen si cuociono Per ben ceci e fagioli Ed il sapon sciogliendosi Come la neve candidi Ti renderà i lenzuoli E quando alla domenica Ti laverai la faccia Non più la pelle ruvida Ma morbida sarà Ecc.ecc.ecc. La felicità allora era la potabile. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

LA POTABILE: Sta incombendo su di noi, a causa della siccità, la concreta possibilità che ci siano provvedimenti riguardanti l’uso dell’acqua. In realtà certe restrizioni già avvenivano anche negli anni precedenti, ma questa mancanza di precipitazioni nevose d’inverno e piovose in primavera, sta mettendo a dura prova la falda acquifera anche se la distribuzione a livello domestico non (dico non) dovrebbe subire conseguenze. La distribuzione dell’acqua potabile per usi domestici arrivò a Casteggio nel 1891, il paese fu dotato da questo servizio così da come si legge dal settimanale Casteggiano “Il Pistornile” proprio in quell’anno. Non sono a conoscenza di come si facesse prima, se c’erano dei pozzi in ogni casa, se c’erano rubinetti, se esistevano delle tubature o se si sono approntate in questa occasione, l’acqua allora veniva pompata con quei marchingegni che la “succhiavano” dai fontanili e la gente si riforniva con i secchi. Una cosa simile esiste ancora a La Valletta poco prima della nostra panchina gigante, con una mano si azione il lungo braccio della pompa e da un tubo fuoriesce l’acqua. A dare notizia dell’arrivo dell’acqua potabile a quei tempi fu proprio il settimanale di cui vi ho parlato prima con una poesia/filastrocca illustrata sicuramente dall’eclettico Alessandro Maragliano (lo stile è il suo e probabilmente anche il testo), visto che era il promotore e l’autore di questi fogli quasi sempre a fini di beneficenza. Ecco il testo: L’ACQUA POTABILE: Evviva la potabile Che viene dalla Costa Come la donna amabile Che Dio dall’uom staccò Con questa almen si cuociono Per ben ceci e fagioli Ed il sapon sciogliendosi Come la neve candidi Ti renderà i lenzuoli E quando alla domenica Ti laverai la faccia Non più la pelle ruvida Ma morbida sarà Ecc.ecc.ecc. La felicità allora era la potabile. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

C’ERA UN INDIANO IN BICI: Tutte le mattine, tempo permettendo, porto la mia fin troppo fedele Peggy a fare una “pipì” nella zona delle scuole, quelle davanti la nostro cimitero. Nel frattempo la seguo e colgo occasione fare anch’io due passi e quando sarà passata la calura faremo giri ben più impegnativi. Sta di fatto che per molte mattine, in maniera consecutiva, incrociavo un barbuto signore con bici che “rovistava” nei cassonetti posti nel retro del supermercato che si trova in questa area. Dopo qualche mattina abbiamo cominciato a salutarci e poi anche a parlare e ho scoperto che non era un sinti (zingaro) come mi immaginavo, ma un indiano dell’India. Quindi mi sono soffermato per vedere come svolgeva la sua attività. Arrivava al mattino presto con la sua bici con i portapacchi davanti e dietro e con delle attrezzature che si era fatto lui, un uncino, un retino, una pinza di quelle per le bottiglie e con questi strumenti pescava nel cassonetto del super mercato. Recuperava di tutto, dai tranci di pizza imbustati del giorno prima, al pane, sempre imbustato ma la cosa che mi lasciava e mi lascia tuttora perplesso era la frutta e la verdura. I ragazzi del super alla mattina presto facevano una scelta dei prodotti esposti e scartavano quelli che mostravano i primi segni di invecchiamento o del giorno prima, ma la cosa che più mi lasciava stupito e appunto perplesso erano le banane. Bastava che sulla pelle delle banane ci fosse qualche punto nero, dovuto alla maturazione, che venivano scartate e il nostro eroe quasi tutti i giorni recuperava questi mazzi di quattro o cinque banane e mediamente ne portava via dieci o quindici banane alla volta(?!!). Una mattina oltre a offrirmi delle crocchette per cani uscite da un sacco rotto, mi offri anche delle banane e dell’altra frutta. “Tutto buono, signore, tutto buono no marcio, prenda”. Per dignità rifiutai ovviamente ma una domanda me la sono porta: “Ma si butta via così tanta roba, ma è mai possibile, senza cadere nel banale o nel retorico, ci sia tutto questo spreco?”. Risposta dell’addetto al rifornimento degli scaffali:”La merce deve essere integra e ovviamente senza segni di invecchiamento altrimenti la clientela non la prende”. Certo, aggiungo, io la pago per buona e buona deve essere, fresca, non scaduta nella data, anzi, per alcuni prodotti ritirati prima della scadenza in etichetta. In qualche super mercato da qualche tempo, con la scusa di uno sconto al 50%, puoi trovare merce in via di scadenza ma sicuramente commestibile (ovviamente se ben conservata). Ci sono piccoli espositori, un poco defilati, dove trovi persone che approfittano di queste occasioni, frugano nel mucchio e qualche cosa prelevano. Ma se guardate chi sono quelli che si avvicinano a questi espositori capisci che saranno anche vestiti diversamente, ma mi ricordano tanto l’indiano in bici.. A proposito: da alcuni mesi il “mio” indiano non lo vedo più, avrà cambiato il cassonetto fornitore. Sempre per bontà vostra. GIU.BA

C’ERA UN INDIANO IN BICI: Tutte le mattine, tempo permettendo, porto la mia fin troppo fedele Peggy a fare una “pipì” nella zona delle scuole, quelle davanti la nostro cimitero. Nel frattempo la seguo e colgo occasione fare anch’io due passi e quando sarà passata la calura faremo giri ben più impegnativi. Sta di fatto che per molte mattine, in maniera consecutiva, incrociavo un barbuto signore con bici che “rovistava” nei cassonetti posti nel retro del supermercato che si trova in questa area. Dopo qualche mattina abbiamo cominciato a salutarci e poi anche a parlare e ho scoperto che non era un sinti (zingaro) come mi immaginavo, ma un indiano dell’India. Quindi mi sono soffermato per vedere come svolgeva la sua attività. Arrivava al mattino presto con la sua bici con i portapacchi davanti e dietro e con delle attrezzature che si era fatto lui, un uncino, un retino, una pinza di quelle per le bottiglie e con questi strumenti pescava nel cassonetto del super mercato. Recuperava di tutto, dai tranci di pizza imbustati del giorno prima, al pane, sempre imbustato ma la cosa che mi lasciava e mi lascia tuttora perplesso era la frutta e la verdura. I ragazzi del super alla mattina presto facevano una scelta dei prodotti esposti e scartavano quelli che mostravano i primi segni di invecchiamento o del giorno prima, ma la cosa che più mi lasciava stupito e appunto perplesso erano le banane. Bastava che sulla pelle delle banane ci fosse qualche punto nero, dovuto alla maturazione, che venivano scartate e il nostro eroe quasi tutti i giorni recuperava questi mazzi di quattro o cinque banane e mediamente ne portava via dieci o quindici banane alla volta(?!!). Una mattina oltre a offrirmi delle crocchette per cani uscite da un sacco rotto, mi offri anche delle banane e dell’altra frutta. “Tutto buono, signore, tutto buono no marcio, prenda”. Per dignità rifiutai ovviamente ma una domanda me la sono porta: “Ma si butta via così tanta roba, ma è mai possibile, senza cadere nel banale o nel retorico, ci sia tutto questo spreco?”. Risposta dell’addetto al rifornimento degli scaffali:”La merce deve essere integra e ovviamente senza segni di invecchiamento altrimenti la clientela non la prende”. Certo, aggiungo, io la pago per buona e buona deve essere, fresca, non scaduta nella data, anzi, per alcuni prodotti ritirati prima della scadenza in etichetta. In qualche super mercato da qualche tempo, con la scusa di uno sconto al 50%, puoi trovare merce in via di scadenza ma sicuramente commestibile (ovviamente se ben conservata). Ci sono piccoli espositori, un poco defilati, dove trovi persone che approfittano di queste occasioni, frugano nel mucchio e qualche cosa prelevano. Ma se guardate chi sono quelli che si avvicinano a questi espositori capisci che saranno anche vestiti diversamente, ma mi ricordano tanto l’indiano in bici.. A proposito: da alcuni mesi il “mio” indiano non lo vedo più, avrà cambiato il cassonetto fornitore. Sempre per bontà vostra. GIU.BA

GIULIANO SAMPAGN!!!!

GIULIANO SAMPAGN!!!!

GIULIANO SAMPAGN!!!!!

Era un noto imprenditore di onoranze funebri di una cittadina in provincia di Alessandria, arrivava di solito in inverno e si presentava alla tavernetta dove io (in un’altra vita) facevo l’animatore/gestore, con una pelliccia di visone che gli arrivava sino ai piedi che gli copriva i Moon Boots di ordinanza, anche se non calpestava la neve se non per andare dalla macchina al più vicino bar. Entrava in discoteca con un codazzo di personaggi, uomini ma soprattutto donne, che lo attorniavano ridanciani e lanciava il suo grido di battaglia “Giuliano sampagn”. Noi non utilizzavamo champagne in discoteca, la nostra clientela chiedeva anche degli spumanti di eccellenza italiani ma mai champagne. Fui costretto mio malgrado a rifornirmi di Veuve Clicquot e di Cristal, lui comandava una o due bottiglie che beveva in compagnia e che pagava con grande ostentazione di denaro. Poi a fine serata se ne andava sempre attorniato da questa fauna di bevitori a scrocco. Uso questo aneddoto però per introdurre un argomento che in questi tempi va per la maggiore: la mancanza di personale. Altra esperienza legata questo aneddoto. Per alcune settimana su di un quotidiano appariva un avviso nel quale una nota ditta di onoranze funebri cercava personale: “Primaria impresa di onoranze funebri di xxxxxx ricerca operai addetti ai servizi funebri. Si richiede sana e robusta costituzione, disponibilità al lavoro notturno e festivo, determinazione ed affidabilità, anche senza esperienza nel settore. Assunzione a tempo indeterminato, previo periodo di prova. Retribuzione ed inquadramento secondo capacità. Inviare curriculum ecc…ecc……” Quest’annuncio è apparso per parecchi giorni, anche in forma di modulo pubblicitario. “E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo” diceva Bogart in un suo film. Io non so se poi alla fine qualcuno si è presentato, ma è certo che se è stato esposto per così tanti giorni è evidente che non è stato facile per quest’azienda trovare personale e so per certo che offrono stipendi più che dignitosi. Nel fare una selezione del personale addetto alla cucina dei collegi universitari, di cui ero responsabile a Piacenza, tenevo dei colloqui con dei giovani cuochi soprattutto provenienti da scuole alberghiere della zona. La prima cosa che mi chiedevano era “Quanto si prende” ma la seconda era “Si lavora nei week end?”. Quanto si prende dipende da cosa sai fare, e io volutamente omettevo di dire, in prima battuta, gli orari del servizio di ristorazione proprio per vederne la reazione. In realtà il servizio su due turni terminava alle 20,30 dal lunedì al venerdì e il sabato solo il pranzo, quindi il w.e. salvo. Allora io domandavo:”Ma tu hai scelto di fare il cuoco con la speranza di non lavorare dal venerdì e per tutto il w.e. proprio quando la gente coglie occasione per usufruire dei ristoranti, temo allora che tu abbia sbagliato mestiere”. Ci sono motivi da entrambe le parti, da chi offre lavoro e da chi vuole lavorare ma a determinate condizioni. Parliamo di HO.RE.CA. ovvero hotellerie, ristorazione, caffetteria, un settore in crisi occupazionale non riuscendo a trovare il personale necessario. Da una parte giovani che preferiscono altre soluzioni lavorative a causa di stipendi offerti che ritengono troppo bassi per il lavoro che svolgono e dall’altra parte di chi cerca e che offre troppo poco e troppo male. Qualcuno ha anche scritto “Non cercano dipendenti ma schiavi” oppure “Preferiscono il R.D.C. per poi lavorare in nero”. Tutto è opinabile, io personalmente non credo che un giovane preferisca il RDC ad un posto a tempo indeterminato a giusta retribuzione e con un giusto contratto. Nel “mare magnum” delle forme contrattuali sarebbe necessario che qualcuno ci mettesse le mani, (compreso il RDC che vada a chi ne ha veramente bisogno) e per qualcuno intendo coloro che siedono, con più o meno affidabilità e competenza, in luoghi demandati alla bisogna senza corporativismi partitici o personali. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

DELUSO

Mancavo da decenni dalla Stazione Centrale di Milano, decenni dove andavo a Milano solo per andare in Università Cattolica, quindi: casa-Autostrada-Famagosta-Metrò e ritorno. Per partecipare ad un corso di aggiornamento ho dovuto allungare il percorso, quindi Metrò sino alla Stazione Centrale. Già di prima mattina, era sabato, la fauna che solitamente orbita attorno alla stazione era già variegata, ma ancora contenibile. Ma poi a fine corso, alle sei di sera quando ho dovuto riattraversare Piazza IV Novembre per tornare al Metrò, le cose erano cambiate. Non vi dico che cosa ho incontrato. Il poco verde che stentatamente cerca di sopravvivere in quella piazza, era completamente assalito da una torma di personaggi stravaccati, ingurgitanti e tracannanti bevande alcoliche di varia natura, Tra l’erba alta si intravedevano gente che dormiva e altri che si dedicavano a bisogni fisiologici, il tutto accompagnato da urla e strepiti. Una domanda sorge spontanea: ma un turista, ma anche colui che viene a Milano per lavoro o per affari questo è il primo biglietto da visita? Ciumbia che approcio. Milano non è solo piazza Gae Aulenti, ma anche tutto il resto e non solo le periferie. Considerato che buona parte di questi personaggi che animano Piazza IV Novembre sono extracomunitari, è questa la formula dell’accoglienza che offriamo, stravaccati e ubriachi a metà pomeriggio, ma non voglio qui entrare nel merito di questo problema. Io a Milano devo tutto, tutto ciò che riguarda la mia vita professionale, sono arrivato a Milano nel 1971, ne sono venuto via nel 91’ per andare a Piacenza con un cospicuo fardello di esperienza professionale. Avevo vissuto gli anni della “Milano da Bere” quando bastava alzare il telefono ed esprimere una necessità che trovavi chi ti risolveva il problema (allora ero in economato). Al Governo c’era il tanto poi vituperato Craxi. Ma le rotelle allora giravano e molto bene, si lavorava bene e tanto. Ora ditemi pure che però a certi livelli c’era del “grigio”, forse, ma al mio non se ne risentiva. Ora vedere la città ridotta a questa maniera mi ha fatto male al cuore, sono rimasto deluso. “I tempi sono cambiati, caro Giuliano” e io rispondo “e quindi?” quindi accettiamo una città sporca, una città violentata e sozza. Le scale per entrare uscire dalla metropolitana sono piene di cicche e cartacce. Sui vagoni della metropolitana il 90% dei passeggeri vede solo lo schermo del telefonino, salgono e scendono figuri strani, ci sono ragazzine che vestono come Jodie Foster in Taxi Driver o come Pretty Woman. Mi sono sentito fuori tempo, fuori luogo e immensamente deluso. Io a Milano voglio bene e vi ho anche spiegato perché. Oggi però mi sento così: deluso. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

MA SE GHE PENSU

 Sino a poco tempo fa la canzone simbolo di Genova era “Ma se ghe pensu” ovvero “ma se ci penso” ed era la storia di una nostalgia, di un emigrato genovese che sentodosi alla fine della sua strada chiedeva ai suoi figli di poter tornare a far riposare le sue ossa accanto ai suoi antenati. Ma dopo il crollo disastroso del Ponte Morandi e la subitanea ricostruzione del nuovo Ponte San Giorgio o Ponte di Renzo Piano, una nuova canzone sta soppiantando questa nel cuore dei Liguri e maggiormente nei Genovesi ed è la stupenda canzone-poesia di Fabrizio De Andrè “Creuza de ma” sentiero di mare. In Oltrepo’ la creusa o la preusa che dir si voglia è quello spazio tra due filari di vite, di fatto una stradella di servizio per i contadini. Ma tornando alla canzone di Fabrizio de Andrè detto anche FABER, la canzone narra di un gruppo di pescatori o marinai che si vanno ad asciugare le ossa presso una locanda, la locanda di Andrea. "Ombre di facce, facce di marinai da dove venite dov’è che andate" canta De Andrè che racconta di come questi marinai, tornati dal mare vanno appunto ad"asciugare le ossa dall’Andrea, in questa taverna di sassi in cui troveranno anche: "Gente de Lûgan facce da mandillä" ("nella casa dell’Andrea, che non è marinaio, troveranno gente di Lugano, facce da tagliaborse quelli che alla spigola preferiscono l’ala, invece del pesce preferiscono il pollo"), ma anche "Figge de famiggia udù de bun che ti peu ammiàle senza u gundun  ("ragazze di famiglia, odore di buono che puoi guardarle tranquillamente"). La strofa successiva, finalmente invece, si parla di ciò che si mangia alla locanda di Andrea, ovvero "frittûa de pigneu, giancu de Purtufin, çervelle de bae ‘nt’u meximu vin, lasagne da fiddià ai quattru tucchi, paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi" ("frittura di pesciolini, bianco di Portofino, cervella di agnello accompagnato con lo stesso vino, lasagne da tagliare ai quattro sughi, pasticcio in agrodolce di lepre di coppi, ovvero di gatto"). Quindi non è da stupirsi se anche FABER abbia ricordato questo vezzo culinario più diffuso, di quel che si pensi, negli anni della guerra durante e dopo. Bello comunque questo excursus sulla cucina “povera” genovese. Mi ricordo che quando ero ragazzino e passavo lungo tempo a Genova, (anche a scuola) sapevo che era consuetudine soprattutto fra gli uomini del porto, mangiare la cosi detta zuppa alla “Sbirra”. Nel tardo autunno e l’approssimarsi dell’ l’inverno nasceva il desiderio di un piatto caldo e corroborante. La sbïra, o minestra “alla sbirra” è uno delle più tipiche preparazioni genovesi della trippa, anche se forse non è la più conosciuta. Il suo nome ci riporta ai tempi in cui veniva consumata dai doganieri, dalle guardie genovesi delle carceri, situate nei sotterranei di Palazzo Ducale, ma soprattutto dai famosi “camalli” o dai “caravana” ovvero gli scaricatori del porto, fungendo da corroborante e ricostituente nelle fredde giornate invernali. Veniva servita in scodelle capienti e parecchi si portavano fette di pane raffermo da inzuppare in questa minestra. Lo sapevate che i camalli ed i caravana erano principalmente bresciani e bergamaschi? Ma questa è un’altra storia. Ora però parliamo di questo “giancu de Portufin”. Il vino bianco Portofino DOC secco è un uvaggio composto da Vermentino e Bianchetta Genovese min.60%. Le caratteristiche organolettiche del Portofino DOC sono: colore giallo paglierino, note aromatiche mediterranee come rosmarino, basilico e scorza di mandarino. In bocca ci conquista e ci fa sentire già in vacanza con le sue note fresche e minerali; da accompagnare a piatti a base di pesce e carni bianche. Da bere sotto una pergola, in tardo pomeriggio estivo,con qualche refolo di vento giusto da muovere le foglie, rimirando il mare. Mi raccomando: poco ma buono che la vita è troppo breve per bere vini mediocri. Sempre per bontà vostra. GIU.BA. 

Creuza de ma

Ponte San Giorgio

TITANIC: Da appassionato alla tragedia del TITANIC, anche l’altra sera (14/04/22) sul canale 35 D.T. Focus, ho seguito, per quanto fosse possibile, il documentario sull’affondamento del TITANIC. Peccato che la pubblicità era continuamente interrotta dal programma. Rispetto alla serata con Alberto Angela, questo documentario era decisamente di spessore inferiore. Ma veniamo ad alcune considerazioni. E’ rispuntato anche ieri sera l’ipotesi che ad indebolire la struttura della nave, che allora era considerata la nave più grande del mondo, fu un incendio scoppiato a bordo addirittura prima della partenza da Southampton. Questo incendio scoppiato nel Box 6 dove era stivato il carbone durò praticamente tutto il viaggio e da approfondite ricerche fu la causa concatenante dell’affondamento. Perché? Il calore prodotto dall’incendio aveva fatto indebolire le lastre di acciaio dello scafo le quali quando vennero in contatto con l’iceberg si ruppero permettendo all’acqua dell’oceano ad invadere tutte le varie stive a partire dalla stiva di prora n°1 da dove iniziarono le falle sulla fiancata della nave e di seguito la stiva 2, la 3 per poi il locale caldaie n°6. Le porte stagne, che dovevano servire a isolare eventuali allagamenti, non funzionarono a dovere e il resto poi è risaputo. Ma a questo punto alcune domande sorgono spontanee: la ditta armatrice la White Strar Line, americana, pur essendo il Titanic battente bandiera inglese, cercò di tenere segreto questo fatto, nella speranza che il danno fosse circoscritto al Box 6 e proibendo tassativamente all’equipaggio coinvolto di farne parola. A disastro avvenuto i superstiti del personale della sala macchine, ovvero coloro che provvedevano a mantenere le caldaie sempre efficienti compresi i fuochisti, furono 4, mentre in seguito si disse che in realtà furono 43(?!). Questi, testimoni oculari dell’incendio e pericolosi per società armatrice, furono segretamente riportati in Inghilterra e solo uno, pare dico pare, ebbe in seguito il coraggio o il rimpianto o il rimorso per testimoniare circa l’episodio relativo all’incendio. Giuliano pensiero: ora sarebbe utile sapere quanti furono veramente gli uomini addetti alle caldaie che riuscirono a salvarsi. Sappiamo per certo che Frederick Barrett il capo fuochista della caldaia 6, proprio quella che ebbe la falla principale e dove era scaturito l’incendio, ex minatore inglese, riuscì a salvarsi anche perché fu incaricato di comandare la scialuppa 13, fu in seguito salvato dalla RMS Carpathia. Ma degli altri si sa poco. Sappiamo che al segnale di pericolo tutti o quasi (?) raggiunsero i ponti superiori e da li, chi poté, si imbarcò sulle scialuppe di salvataggio come addetto ai remi. Come fecero nel 1912 a fare sparire 43 persone e farle ricomparire in Inghilterra probabilmente pagandoli profumatamente e facendoli disperdere nel Regno Unito? Non si saprà mai, purché non rivelassero dell’incendio nella stiva 6 piena di carbone. Oggi basterebbe farli salire su di un aereo privato e poche ore dopo sbarcarli a Londra, ma allora?  Ma ora parliamo un poco di noi oltrepadani. Gaspare Antonio Pietro

TITANIC: Da appassionato alla tragedia del TITANIC, anche l’altra sera (14/04/22) sul canale 35 D.T. Focus, ho seguito, per quanto fosse possibile, il documentario sull’affondamento del TITANIC. Peccato che la pubblicità era continuamente interrotta dal programma. Rispetto alla serata con Alberto Angela, questo documentario era decisamente di spessore inferiore. Ma veniamo ad alcune considerazioni. E’ rispuntato anche ieri sera l’ipotesi che ad indebolire la struttura della nave, che allora era considerata la nave più grande del mondo, fu un incendio scoppiato a bordo addirittura prima della partenza da Southampton. Questo incendio scoppiato nel Box 6 dove era stivato il carbone durò praticamente tutto il viaggio e da approfondite ricerche fu la causa concatenante dell’affondamento. Perché? Il calore prodotto dall’incendio aveva fatto indebolire le lastre di acciaio dello scafo le quali quando vennero in contatto con l’iceberg si ruppero permettendo all’acqua dell’oceano ad invadere tutte le varie stive a partire dalla stiva di prora n°1 da dove iniziarono le falle sulla fiancata della nave e di seguito la stiva 2, la 3 per poi il locale caldaie n°6. Le porte stagne, che dovevano servire a isolare eventuali allagamenti, non funzionarono a dovere e il resto poi è risaputo. Ma a questo punto alcune domande sorgono spontanee: la ditta armatrice la White Strar Line, americana, pur essendo il Titanic battente bandiera inglese, cercò di tenere segreto questo fatto, nella speranza che il danno fosse circoscritto al Box 6 e proibendo tassativamente all’equipaggio coinvolto di farne parola. A disastro avvenuto i superstiti del personale della sala macchine, ovvero coloro che provvedevano a mantenere le caldaie sempre efficienti compresi i fuochisti, furono 4, mentre in seguito si disse che in realtà furono 43(?!). Questi, testimoni oculari dell’incendio e pericolosi per società armatrice, furono segretamente riportati in Inghilterra e solo uno, pare dico pare, ebbe in seguito il coraggio o il rimpianto o il rimorso per testimoniare circa l’episodio relativo all’incendio. Giuliano pensiero: ora sarebbe utile sapere quanti furono veramente gli uomini addetti alle caldaie che riuscirono a salvarsi. Sappiamo per certo che Frederick Barrett il capo fuochista della caldaia 6, proprio quella che ebbe la falla principale e dove era scaturito l’incendio, ex minatore inglese, riuscì a salvarsi anche perché fu incaricato di comandare la scialuppa 13, fu in seguito salvato dalla RMS Carpathia. Ma degli altri si sa poco. Sappiamo che al segnale di pericolo tutti o quasi (?) raggiunsero i ponti superiori e da li, chi poté, si imbarcò sulle scialuppe di salvataggio come addetto ai remi. Come fecero nel 1912 a fare sparire 43 persone e farle ricomparire in Inghilterra probabilmente pagandoli profumatamente e facendoli disperdere nel Regno Unito? Non si saprà mai, purché non rivelassero dell’incendio nella stiva 6 piena di carbone. Oggi basterebbe farli salire su di un aereo privato e poche ore dopo sbarcarli a Londra, ma allora? Ma ora parliamo un poco di noi oltrepadani. Gaspare Antonio Pietro "Luigi" Gatti (3 gennaio 1875 - 15 aprile 1912), vedi foto, nato a Montalto Pavese era uno degli undici figli nati da Paolo Gatti, consigliere e magistrato locale (?), e da Maria Nascimbene. Luigi era partito giovanissimo per Londra dove cominciò la sua carriera come sguattero nei ristoranti più rinomati di quella città. Con grande spirito di iniziativa riuscì con grandi sacrifici e soprattutto con molto lavoro a diventare uno dei più rinomati ristoratori di Londra. La White Star Lines lo volle a bordo, prima della R.M.S. OLIPINC la gemella del Titanic e dopo, visto il successo, la classe e la altissima qualità dei suoi servizi, lo vollero come il gestore del ristorante sull'RMS Titanic, questo esclusivo ristorante si occupava di quei passeggeri per i quali il servizio di prima classe non era abbastanza esclusivo. Il ristorante “A’ LA CARTE” del Titanic era ancora più grande rispetto alla gemella Olimpic, questo era in grado di ospitare oltre 150 commensali, con oltre 60 dipendenti, per lo più italiani e francesi, tutti impiegati e scelti direttamente da Gatti fra i migliori professionisti; il nostro conterraneo gestiva questi ristoranti in concessione ovvero una propria gestione separata ed esclusiva. Per il viaggio inaugurale del Titanic, sia Gatti che il suo capo chef dell'Olympic che lo aveva seguito, avevano accettato questo ruolo per garantire il successo del nuovo ristorante. C'era anche un'area reception per aperitivi e un Café Parisien progettato per attrarre gli americani. Luigi Gatti affondò con la nave, morendo il 15 aprile 1912. Il suo corpo fu recuperato dal CS Minia tra il 26 aprile e il 6 maggio 1912 e sepolto nel cimitero di Fairview, Halifax, Nuova Scozia, Canada. Nessuno dei camerieri italiani riuscì a salvarsi. Mentre tra i 10 passeggeri italiani 4 sopravvissero mentre 6 perirono. Poiché i camerieri italiani e francesi facenti parte della brigata di Gatti non erano tutti dichiarati, in realtà non si saprà mai quanti fossero precisamente, se e quanti si salvarono veramente e quanti perirono. Si sa certamente che il sommelier del ristorante tale Luigi Zarracchi da Milano di anni 26, non fu mai ritrovato, dichiarato disperso, il suo corpo non fu mai ritrovato. Una ultima nota: la nave si chiamava in realtà R.M.S. Titanic ovvero Royal Mail Ship cosi come tutte le altre navi gemelle, praticamente un postale, forse per pagare meno tasse essendo un pubblico servizio. Una furbata?!.Forse. Grazie per l’attenzione GIU.BA .

L’UOMO INNAMORATO DELLA LUNA:    Era la sera giusta. Si vestì con cura e con calma, mise i pantaloni di velluto scuro, la camicia bianca, il panciotto la giacca, il giacchettone ed uscì. Il sole era appena tramontato ed il cielo risplendeva ancora della sua luce. Sulla porta di casa respirò profondamente e l’aria gelida gli entrò dalle narici procurandogli un effetto doloroso ma vivificante. Samboneto il piccolo paese, riposava quieto, solo rumore di stoviglie e i suoni della cena. Qualche muggito usciva dalle stalle, suoni famigliari, odori famigliari. Sollevò il collo del giaccone e s’incamminò. Da anni oramai faceva questa cosa, quasi un rito, tutte le notti di luna piena se ne usciva di casa e saliva in vetta al Lesima, la montagna che incombeva sul suo paese e là, in perfetta solitudine si sedeva e guardava estasiato la luna piena, ne seguiva il cammino nella volta celeste sino al suo scomparire all’orizzonte. Poi tornava a casa e si metteva a letto pago di quella nottata. Anche quella sera lentamente con il suo passo da montanaro cominciò a salire il monte. Attraversò il bosco, evitando con le mani che i rami carichi di rugiada lo bagnassero, fermandosi ogni tanto a tirare il fiato e voltandosi ad ammirare la valle punteggiata dalle luci di una miriade di villaggi e case sparse. Da un lato la valle dello Staffora e dall’altro la valle del Trebbia. Il sentiero si fece più ripido e la salita più faticosa, ma lui continuò con metodo la sua ascesa al monte. Il bosco finì per lasciare spazio ai prati ed il sentiero ora era solo un solco tra l’erba bassa. La luna era quasi giunta al punto più alto del cielo  lui si affrettò. Arrivò in vetta, sotto la grande croce di ferro e li si sedette sul solito masso ed iniziò a guardarla in adorazione. Protese le mani come per cercare di prenderla mentre il suo viso si distese in un sorriso sereno. Restò parecchio tempo in silenzio, rapito e non si accorse che nubi minacciose stavano mano a mano coprendo il cielo. Trasalì solo quando una nuvola oscurò la luna. Ebbe un gesto di stizza e di sorpresa. Si alzò, guardò il cielo oramai tutto coperto lanciò uno sguardo alla luna che scompariva tra la coltre di nubi: “Ti amo” le gridò “Come ti amo, quanto ti amo”. Protese ancora le mani e poi le portò al petto come volesse stringerla a sé, socchiuse gli occhi per un attimo e incominciò a scendere. La luna, oramai oscurata, gli impediva di veder il sentiero che si snodava a mezza costa tagliando la montagna come una ferita sottile; poi, come succede di sovente, in un attimo cominciò a nevicare, mentre un forte vento faceva turbinare la neve davanti ai suoi occhi. Arrivò su di una cresta; il sentiero che sino ad allora aveva tagliato la costa del monte, cominciò a seguirne il crinale: L’uomo era proprio sullo spartiacque, di qua e di la solo pendii scoscesi. La neve ed il vento schiaffeggiavano il suo volto. Ad un tratto scivolò sull’erba bagnata e cominciò a precipitare verso il fondo della valle senza riuscire a fermarsi. Il suo corpo come un fantoccio rimbalzava sul pratone acquistando sempre più velocità. Si fermò di schianto contro un albero rimanendo bocconi nella neve. Si accorse dal forte dolore della schiena e dalla insensibilità delle gambe che era giunto alla fine del viaggio. Con la faccia affondata nella neve ascoltò il rumore che  i fiocchi facevano cadendo, lo stormire delle foglie, rumori sottili infinitesimali, mai ascoltati sino ad ora. Aprì un occhio e guardò il cielo e tra le nuvole che si inseguivano vide in uno sprazzo di luce la luna. “Luna, luna” chiamò in un lamento ed il cielo si squarciò ed una luce bianca gli illuminò una guancia come un baciò. Chiuse gli occhi mentre una lacrima si mescolava alla neve “Quanto ti amo” disse e poi sentì solo il rumore della neve che cadeva e la vita che se ne andava. Restò così, sorridente a faccia in giù, nella neve e così lo ritrovarono parecchio tempo dopo.  Giuliano Balestrero.

L’UOMO INNAMORATO DELLA LUNA: Era la sera giusta. Si vestì con cura e con calma, mise i pantaloni di velluto scuro, la camicia bianca, il panciotto la giacca, il giacchettone ed uscì. Il sole era appena tramontato ed il cielo risplendeva ancora della sua luce. Sulla porta di casa respirò profondamente e l’aria gelida gli entrò dalle narici procurandogli un effetto doloroso ma vivificante. Samboneto il piccolo paese, riposava quieto, solo rumore di stoviglie e i suoni della cena. Qualche muggito usciva dalle stalle, suoni famigliari, odori famigliari. Sollevò il collo del giaccone e s’incamminò. Da anni oramai faceva questa cosa, quasi un rito, tutte le notti di luna piena se ne usciva di casa e saliva in vetta al Lesima, la montagna che incombeva sul suo paese e là, in perfetta solitudine si sedeva e guardava estasiato la luna piena, ne seguiva il cammino nella volta celeste sino al suo scomparire all’orizzonte. Poi tornava a casa e si metteva a letto pago di quella nottata. Anche quella sera lentamente con il suo passo da montanaro cominciò a salire il monte. Attraversò il bosco, evitando con le mani che i rami carichi di rugiada lo bagnassero, fermandosi ogni tanto a tirare il fiato e voltandosi ad ammirare la valle punteggiata dalle luci di una miriade di villaggi e case sparse. Da un lato la valle dello Staffora e dall’altro la valle del Trebbia. Il sentiero si fece più ripido e la salita più faticosa, ma lui continuò con metodo la sua ascesa al monte. Il bosco finì per lasciare spazio ai prati ed il sentiero ora era solo un solco tra l’erba bassa. La luna era quasi giunta al punto più alto del cielo lui si affrettò. Arrivò in vetta, sotto la grande croce di ferro e li si sedette sul solito masso ed iniziò a guardarla in adorazione. Protese le mani come per cercare di prenderla mentre il suo viso si distese in un sorriso sereno. Restò parecchio tempo in silenzio, rapito e non si accorse che nubi minacciose stavano mano a mano coprendo il cielo. Trasalì solo quando una nuvola oscurò la luna. Ebbe un gesto di stizza e di sorpresa. Si alzò, guardò il cielo oramai tutto coperto lanciò uno sguardo alla luna che scompariva tra la coltre di nubi: “Ti amo” le gridò “Come ti amo, quanto ti amo”. Protese ancora le mani e poi le portò al petto come volesse stringerla a sé, socchiuse gli occhi per un attimo e incominciò a scendere. La luna, oramai oscurata, gli impediva di veder il sentiero che si snodava a mezza costa tagliando la montagna come una ferita sottile; poi, come succede di sovente, in un attimo cominciò a nevicare, mentre un forte vento faceva turbinare la neve davanti ai suoi occhi. Arrivò su di una cresta; il sentiero che sino ad allora aveva tagliato la costa del monte, cominciò a seguirne il crinale: L’uomo era proprio sullo spartiacque, di qua e di la solo pendii scoscesi. La neve ed il vento schiaffeggiavano il suo volto. Ad un tratto scivolò sull’erba bagnata e cominciò a precipitare verso il fondo della valle senza riuscire a fermarsi. Il suo corpo come un fantoccio rimbalzava sul pratone acquistando sempre più velocità. Si fermò di schianto contro un albero rimanendo bocconi nella neve. Si accorse dal forte dolore della schiena e dalla insensibilità delle gambe che era giunto alla fine del viaggio. Con la faccia affondata nella neve ascoltò il rumore che i fiocchi facevano cadendo, lo stormire delle foglie, rumori sottili infinitesimali, mai ascoltati sino ad ora. Aprì un occhio e guardò il cielo e tra le nuvole che si inseguivano vide in uno sprazzo di luce la luna. “Luna, luna” chiamò in un lamento ed il cielo si squarciò ed una luce bianca gli illuminò una guancia come un baciò. Chiuse gli occhi mentre una lacrima si mescolava alla neve “Quanto ti amo” disse e poi sentì solo il rumore della neve che cadeva e la vita che se ne andava. Restò così, sorridente a faccia in giù, nella neve e così lo ritrovarono parecchio tempo dopo. Giuliano Balestrero.

OGGI VI RACCONTO UNA STORIA:  Valverde de Valdelacasa. Quattro pellegrini sul Cammino di Santiago, La rua de la plata. Io, Serafin, professore alle scuole superiori, sua moglie Ketty e Elena, una farmacista delle Isole Canarie, io ero l’unico non spagnolo. Eravamo partiti da Maños de Montemajor all’alba e verso mezzogiorno eravamo arrivati a Aldeanuova del Camino, il sole cominciava a essere molto caldo. Il paese era molto piccolo, proprio quattro case, molto carino. Eravamo passati davanti a una casa fatiscente ma non vi avevamo fatto molto caso. In paese cercammo di capire dove si trovava l’Albergue*, ci fecero trovare un uomo che custodiva le chiavi dell’Albergue*. Notammo subito che era titubante, ma alla fine ci accompagnò. Ma con grande sorpresa scoprimmo che era proprio la casa fatiscente che avevamo incontrato poco prima il nostro alloggio. Aprimmo la porta e il nostro accompagnatore dopo averci lasciato le chiavi se la dette letteralmente a gambe. Da una prima ispezione restammo esterrefatti dal luridume e dalla sporcizia. Io che avevo appoggiato lo zaino su di un letto rimasi di sasso nel notare una gigantesca macchia marrone nel mezzo del materasso, le due signore che camminavano con noi, Ketty e Elena, erano sbalordite dalla sporcizia. Ragnatele ovunque, polvere e sedie rotte, materassi luridi. Decidemmo su due piedi di non fermarci in quel posto sudicio e di cercare subito un’altra sistemazione. Un particolare importante, l’Albergue* era di competenza del Municipio. Elena era letteralmente inviperita, tornati in paese si fece indicare dove poteva trovare il Sindaco, anzi una Sindaca, visto che era una signora. La trovammo all’ombra di un muro seduta assieme ad altre donne e sventolarsi con i ventagli. Dress code della alcaldessa*: baby doll azzurrino ovviamente su canottiera, calzoncini quelli aderenti da ciclista malgrado le sue rotondità e grosso cappello di paglia con nastro rosso. Elena, senza por tempo frammezzo, si avventò sulla “signora” esprimendo in senso molto colorito se era quella la maniera di custodire il rifugio per i pellegrini. Pur capendo abbastanza bene lo spagnolo, alcune parole mi sfuggivano ma visto la faccia della signora, ne intuivo il significato. Quello che capivo di più era “Debería darte vergüenza” dovresti vergognarti. La alcaldessa*, prima cercò di replicare, ma era tanta e tale la foga e la veemenza di Elena, che a quel punto trovò come unica soluzione darsi alla fuga inseguita anche fisicamente e dalle urla di Elena “Debería darte vergüenza, tenere il quel modo il rifugio dei pellegrini”. Era oramai l’ora di mangiare qualche cosa e ci riparammo dal caldo e dal sole in una “mesa” trattoria dove scoprimmo che il proprietario faceva parte dell’opposizione in municipio. Ovviamente rintuzzò i commenti negativi al Sindaco dando dell’incapace alla alcaldessa*. Alla fine considerata l’ora e il calore le due signore Ketty ed Elena decisero di raggiungere un albergue* successivo in taxi, mentre io e Serafin “noi uomini duri” decidemmo di percorre quei km. che restavano a piedi. Bella storia Bale. Sempre per bontà vostra GIU.BA. Due note:  *Albergue: sul Cammino di Santiago si indicano con questo termine i rifugi per i pellegrini. *Alcalde o Alcaldessa significa Sindaco o Sindaca, ma questo lo avevate capito da soli..

OGGI VI RACCONTO UNA STORIA: Valverde de Valdelacasa. Quattro pellegrini sul Cammino di Santiago, La rua de la plata. Io, Serafin, professore alle scuole superiori, sua moglie Ketty e Elena, una farmacista delle Isole Canarie, io ero l’unico non spagnolo. Eravamo partiti da Maños de Montemajor all’alba e verso mezzogiorno eravamo arrivati a Aldeanuova del Camino, il sole cominciava a essere molto caldo. Il paese era molto piccolo, proprio quattro case, molto carino. Eravamo passati davanti a una casa fatiscente ma non vi avevamo fatto molto caso. In paese cercammo di capire dove si trovava l’Albergue*, ci fecero trovare un uomo che custodiva le chiavi dell’Albergue*. Notammo subito che era titubante, ma alla fine ci accompagnò. Ma con grande sorpresa scoprimmo che era proprio la casa fatiscente che avevamo incontrato poco prima il nostro alloggio. Aprimmo la porta e il nostro accompagnatore dopo averci lasciato le chiavi se la dette letteralmente a gambe. Da una prima ispezione restammo esterrefatti dal luridume e dalla sporcizia. Io che avevo appoggiato lo zaino su di un letto rimasi di sasso nel notare una gigantesca macchia marrone nel mezzo del materasso, le due signore che camminavano con noi, Ketty e Elena, erano sbalordite dalla sporcizia. Ragnatele ovunque, polvere e sedie rotte, materassi luridi. Decidemmo su due piedi di non fermarci in quel posto sudicio e di cercare subito un’altra sistemazione. Un particolare importante, l’Albergue* era di competenza del Municipio. Elena era letteralmente inviperita, tornati in paese si fece indicare dove poteva trovare il Sindaco, anzi una Sindaca, visto che era una signora. La trovammo all’ombra di un muro seduta assieme ad altre donne e sventolarsi con i ventagli. Dress code della alcaldessa*: baby doll azzurrino ovviamente su canottiera, calzoncini quelli aderenti da ciclista malgrado le sue rotondità e grosso cappello di paglia con nastro rosso. Elena, senza por tempo frammezzo, si avventò sulla “signora” esprimendo in senso molto colorito se era quella la maniera di custodire il rifugio per i pellegrini. Pur capendo abbastanza bene lo spagnolo, alcune parole mi sfuggivano ma visto la faccia della signora, ne intuivo il significato. Quello che capivo di più era “Debería darte vergüenza” dovresti vergognarti. La alcaldessa*, prima cercò di replicare, ma era tanta e tale la foga e la veemenza di Elena, che a quel punto trovò come unica soluzione darsi alla fuga inseguita anche fisicamente e dalle urla di Elena “Debería darte vergüenza, tenere il quel modo il rifugio dei pellegrini”. Era oramai l’ora di mangiare qualche cosa e ci riparammo dal caldo e dal sole in una “mesa” trattoria dove scoprimmo che il proprietario faceva parte dell’opposizione in municipio. Ovviamente rintuzzò i commenti negativi al Sindaco dando dell’incapace alla alcaldessa*. Alla fine considerata l’ora e il calore le due signore Ketty ed Elena decisero di raggiungere un albergue* successivo in taxi, mentre io e Serafin “noi uomini duri” decidemmo di percorre quei km. che restavano a piedi. Bella storia Bale. Sempre per bontà vostra GIU.BA. Due note: *Albergue: sul Cammino di Santiago si indicano con questo termine i rifugi per i pellegrini. *Alcalde o Alcaldessa significa Sindaco o Sindaca, ma questo lo avevate capito da soli..

QUANDO ERAVAMO FELICI…….e non lo sapevamo. La fenomenologia dell’acqua di “Viscì” Avrei dovuto scrivere dell’Idrolitina o dell’Idriz, ma a causa del titolo avrei corso il rischio di essere accusato di pubblicità occulta. Vi parlerò allora dell’acqua di Vichy, nota località termale francese che noi italiani decidemmo di innalzare alla gloria del vivere quotidiano definendo per antonomasia tutte quelle acque frizzanti ricavate dalle magiche polverine contenute in colorate scatolette, il cui apparire nelle credenze decretava l’arrivo dell’estate. Non che non si usassero anche d’inverno, ma era sicuramente un uso più legato alla stagione calda. Io addirittura pensavo non fossero più in commercio, invece alcuni giorni addietro ecco come per incanto sullo scaffale di un negozio faceva bella mostra di se la gialla scatoletta del Cav. Gazzoni. Non ho resistito alla tentazione e ne ho portata una a casa. Ma cos'è l’Idrolitina (o Idriz)? si chiederanno i più giovani, magari pensando a un qualche disinfettante in grado di rendere bevibile l’acqua del acquedotto comunale. Non è proprio così l’Idrolitina era qualcosa di più, una cartina di polvere bianca, in qualche caso due, che si mettevano in una bottiglia d’acqua di rubinetto, subitamente si tappava e dopo un paio di minuti avevi una meravigliosa bottiglia di acqua frizzante. Tutto qui. Ho così recuperato una bottiglia da litro di quelle con la famosa macchinetta per chiudere ermeticamente il collo della bottiglia, poi ho fatto scorrere l’acqua del rubinetto affinché diventasse un poco più fresca, ho riempito la bottiglia e ho seguito le istruzioni. Dopo alcuni minuti l’acqua era pronta e sono passato alla degustazione. Petillant, brioso, retrogusto di acido citrico, fine perlage. Che strano. Le sensazioni non erano solo papillari, ma anche visive, oniriche. Estate calda, campi di stoppie, fresche stanze di una vecchia casa in una valle silenziosa appena fuori Retorbido, terra di Bertoldo e Re Alboino. Tende mosse dal vento. Un altro sorso, la voce della nonna, il correre affannoso inseguito da chissà quali nemici invisibili, destriero bianco fatto di aria, fantasia e manico di scopa; ghiacciaia di legno, bottiglia appannata. Elfi e gnomi nel bosco di castagni. Albero delle pere “giazzeu”, puoi arrivare sino là, per andare oltre devi avvertire dove vai, limite invalicabile senza lasciapassare. Arriva il nonno dalla città con la sua bici carica di borse, a piedi su per l’ultima erta spingendo il biciclettone con i freni a bacchetta; formaggini Tigre e cotolette panate, poco carne e tanto pangrattato. Pane bianco, forno a legna, odore di crescente. Lucciole da inseguire nella sera e poi il sonno fra le fresche lenzuola di tela greggia. Ancora un sorso nella speranza di continuare il sogno, poi la bottiglia torna nel frigo, che nel silenzio della sera ronfa come un gatto e la lama di luce attraverso lo sportello socchiuso taglia il buio della cucina. E pensare che per tutto questo è stata sufficiente una bustina di polvere cristallina che sa trasformare una bottiglia d’acqua in un viaggio dentro la memoria. “Disse l’oste al vino: tu mi diventi vecchio ti voglio maritare con l’acqua del mio secchio! Rispose il vino all’oste: fai le pubblicazioni sposo l’Idrolitina del Cav.Gazzoni!!!” Un capolavoro. Av salut brava gent. GIU.BA. P.S. Oltre che l’Idrolitina e l’Idriz vennero poi la Cristallina e la Frizzina giusto per non far torto a nessuno.

QUANDO ERAVAMO FELICI…….e non lo sapevamo. La fenomenologia dell’acqua di “Viscì” Avrei dovuto scrivere dell’Idrolitina o dell’Idriz, ma a causa del titolo avrei corso il rischio di essere accusato di pubblicità occulta. Vi parlerò allora dell’acqua di Vichy, nota località termale francese che noi italiani decidemmo di innalzare alla gloria del vivere quotidiano definendo per antonomasia tutte quelle acque frizzanti ricavate dalle magiche polverine contenute in colorate scatolette, il cui apparire nelle credenze decretava l’arrivo dell’estate. Non che non si usassero anche d’inverno, ma era sicuramente un uso più legato alla stagione calda. Io addirittura pensavo non fossero più in commercio, invece alcuni giorni addietro ecco come per incanto sullo scaffale di un negozio faceva bella mostra di se la gialla scatoletta del Cav. Gazzoni. Non ho resistito alla tentazione e ne ho portata una a casa. Ma cos'è l’Idrolitina (o Idriz)? si chiederanno i più giovani, magari pensando a un qualche disinfettante in grado di rendere bevibile l’acqua del acquedotto comunale. Non è proprio così l’Idrolitina era qualcosa di più, una cartina di polvere bianca, in qualche caso due, che si mettevano in una bottiglia d’acqua di rubinetto, subitamente si tappava e dopo un paio di minuti avevi una meravigliosa bottiglia di acqua frizzante. Tutto qui. Ho così recuperato una bottiglia da litro di quelle con la famosa macchinetta per chiudere ermeticamente il collo della bottiglia, poi ho fatto scorrere l’acqua del rubinetto affinché diventasse un poco più fresca, ho riempito la bottiglia e ho seguito le istruzioni. Dopo alcuni minuti l’acqua era pronta e sono passato alla degustazione. Petillant, brioso, retrogusto di acido citrico, fine perlage. Che strano. Le sensazioni non erano solo papillari, ma anche visive, oniriche. Estate calda, campi di stoppie, fresche stanze di una vecchia casa in una valle silenziosa appena fuori Retorbido, terra di Bertoldo e Re Alboino. Tende mosse dal vento. Un altro sorso, la voce della nonna, il correre affannoso inseguito da chissà quali nemici invisibili, destriero bianco fatto di aria, fantasia e manico di scopa; ghiacciaia di legno, bottiglia appannata. Elfi e gnomi nel bosco di castagni. Albero delle pere “giazzeu”, puoi arrivare sino là, per andare oltre devi avvertire dove vai, limite invalicabile senza lasciapassare. Arriva il nonno dalla città con la sua bici carica di borse, a piedi su per l’ultima erta spingendo il biciclettone con i freni a bacchetta; formaggini Tigre e cotolette panate, poco carne e tanto pangrattato. Pane bianco, forno a legna, odore di crescente. Lucciole da inseguire nella sera e poi il sonno fra le fresche lenzuola di tela greggia. Ancora un sorso nella speranza di continuare il sogno, poi la bottiglia torna nel frigo, che nel silenzio della sera ronfa come un gatto e la lama di luce attraverso lo sportello socchiuso taglia il buio della cucina. E pensare che per tutto questo è stata sufficiente una bustina di polvere cristallina che sa trasformare una bottiglia d’acqua in un viaggio dentro la memoria. “Disse l’oste al vino: tu mi diventi vecchio ti voglio maritare con l’acqua del mio secchio! Rispose il vino all’oste: fai le pubblicazioni sposo l’Idrolitina del Cav.Gazzoni!!!” Un capolavoro. Av salut brava gent. GIU.BA. P.S. Oltre che l’Idrolitina e l’Idriz vennero poi la Cristallina e la Frizzina giusto per non far torto a nessuno.

VEGANI VI AMO 1.0

Sono nel bel mezzo di una dieta a causa di una sovraesposizione agli antibiotici, nulla di allarmante, il medico specialista in disbiosi intestinale mi ha raccomandato una dieta, nulla di eclatante, carboidrati a pranzo, un po’ di carne rossa, poco pane senza mollica e verdure e carne bianca a cena. Dolci ma non quelli lievitati e niente zuppa inglese e tiramisu’ per intenderci. Fin qui niente drastici sacrifici, riesco a seguire la dieta al 95%. Questa mi ha dato la possibilità di provare a sperimentare altre forme nutrizionali, formaggi senza lattosio ad esempio ma anche altri tipi di alimenti. Girando fra gli scaffali soprattutto nei reparti appunto degli alimenti alternativi ho incrociato quello dedicato ai vegani e qui ho voluto sperimentale gli hamburger vegani. Gli ingredienti per preparare un hamburger ideale per vegani di solito sono utilizzati tofu, curry, sale, pepe e verdure, come carote e cipollotti, quinoa o ceci. A questo impasto, non oso chiamarlo intruglio, spesso viene aggiunto un po' di pangrattato. Bene, torno a casa con una confezione di due di questi hamburger, padella calda un filo di olio extravergine e poi a far cuocere uno di questi. Una volta raggiunta una discreta doratura mi preparo a mangiare ma la mia buona intenzione si ferma al primo boccone, sarò anche di “bocca buona”, mi armo di buona volontà anche di fronte a piatti discutibili, nel senso che faccio buon viso a cattiva sorte, una volta ho detto a un cameriere mentre uscivo da una trattoria ”Complimenti per l’olio e l’aceto”. Sono cresciuto con una nonna genovese, una mamma piacentina e una consorte che ha fatto buon uso di questi insegnamenti oltre, e di suo, l’aggiunta di piatti oltrepadani, ma questa volta non sono proprio riuscito ad andare oltre. Con mio grande rammarico sospendo la prova e il mezzo hamburger già cotto provo a darlo alla mia fida Peggy che prima lo fiuta e poi se ne è tornata nella sua calda e comoda cuccia e se avesse potuto mi avrebbe fatto il gesto dell’ombrello. Avevo anche preso un pezzetto di TOFU, devo dire che TOFU e QUINOA sono elementi che non avevo mai sentito prima, solo da qualche tempo rientrano negli ingredienti che sento citare. Ma torniamo al Tofu, una specie di formaggio senza latte, provo a masticarlo e pare di masticare il polistirolo, stesso gusto e stessa consistenza, “Ma dovevi impanarlo e farlo friggere!”, ma allora mangiavo la panatura non il Tofu! Mi viene in mente il mio collega milanese che alla fine un pranzo conviviale disse:”La buca lè minga straca se la sa no de vaca” e siccome era la prima volta che lo sentivo dire la cosa mi fu subito simpatica e applicai gioiosamente il consiglio. Quindi cari amici vegani sapete perché vi amo, perché questa situazione mi induce a ribadire che sono onnivoro e carnivoro, tenetevi pure la vostra QUINOA e il vostro TOFU e lasciatemi godere di una bella tagliata di chianina a media cottura su un letto di rucola con scaglie di Parmigiano Reggiano 40 mesi ma anche di Grana Padano riserva. E qui scatta una domanda che sorge spontanea: quale vino? La tagliata di chianina è un piatto succulento, morbido, grasso, dai sapori persistenti in cui una certa tendenza “amarognola” dovuta al tipo di cottura coesiste con la pseudo dolcezza della carne. Per una simile preparazione è necessario stappare una bottiglia elaborata e complessa, di buon corpo per contrastare la succosità del piatto e il suo carattere grasso; profumata per supportare e non farsi sovrastare dai sapori della carne; vellutata, morbida ed equilibrata per armonizzarsi con la succulenza e l’aromaticità della carne. Un Buttafuoco storico è sicuramente un’ottima scelta per questa ricetta che si abbina alla perfezione con piatti di carne complessi come questo. Un consiglio: stappate la bottiglia un’ora prima di utilizzarla in modo che il vino respiri e si ossigeni, se avete un decanter travasatelo con delicatezza, i più esigenti usando una candela per traguardare ed evitare il “fondo” che però oggi non esiste quasi più. A questo punto mi permetto la solita raccomandazione: la vita è troppo breve per bere vini mediocri, bere troppo fa male, bere male è anche peggio, che sia poco ma buono e sempre con judicio. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

Questa l'ho rubata dal WEB ma in questo momento mi sentivo di condividerla con voi: Quando morirò dirò tutto a Dio. Gli dirò che nel mondo che ha creato a comandare c'è un essere ingrato. Quando morirò dirò tutto a Dio, gli dirò del vostro fare indifferente, del vostro guardarci come fossimo niente. Quando morirò dirò tutto a Dio. Gli dirò che mi manca il mio papà e che ora sento freddo in questa stanza. Vorrei un mondo per chi come me è nato dall'altra parte della strada, è nato dall'altra parte della vita, dalla parte sbagliata. Quando morirò dirò tutto a Dio, dei beni che ci avete confiscato, tra questi ci sono le persone che abbiamo amato. Quando morirò dirò tutto a Dio, dicono lui sia amico dei bambini non come questi idioti travestiti d'assassini. Vorrei un mondo per chi come me è nato dall'altra parte della strada, è nato dall'altra parte della vita, dalla parte sbagliata. Vorrei un mondo per chi come me è cullato dalle bombe della notte, dalla polvere da sparo, dai palazzi in fiamme, dalle grida disperate delle mamme. Dove hai nascosto la mia mamma, maledetta guerra ? Quando morirò dirò tutto a Dio, degli anni che mi avete rubato, della vita che non ho mai vissuto, ora vi saluto... vado a dire tutto a Dio.   ~ Martina Attili ~

Questa l'ho rubata dal WEB ma in questo momento mi sentivo di condividerla con voi: Quando morirò dirò tutto a Dio. Gli dirò che nel mondo che ha creato a comandare c'è un essere ingrato. Quando morirò dirò tutto a Dio, gli dirò del vostro fare indifferente, del vostro guardarci come fossimo niente. Quando morirò dirò tutto a Dio. Gli dirò che mi manca il mio papà e che ora sento freddo in questa stanza. Vorrei un mondo per chi come me è nato dall'altra parte della strada, è nato dall'altra parte della vita, dalla parte sbagliata. Quando morirò dirò tutto a Dio, dei beni che ci avete confiscato, tra questi ci sono le persone che abbiamo amato. Quando morirò dirò tutto a Dio, dicono lui sia amico dei bambini non come questi idioti travestiti d'assassini. Vorrei un mondo per chi come me è nato dall'altra parte della strada, è nato dall'altra parte della vita, dalla parte sbagliata. Vorrei un mondo per chi come me è cullato dalle bombe della notte, dalla polvere da sparo, dai palazzi in fiamme, dalle grida disperate delle mamme. Dove hai nascosto la mia mamma, maledetta guerra ? Quando morirò dirò tutto a Dio, degli anni che mi avete rubato, della vita che non ho mai vissuto, ora vi saluto... vado a dire tutto a Dio. ~ Martina Attili ~

IL FRASSINO.

La tangenziale che da Voghera porta a Casteggio, ad un tratto compie una variante verso nord, un ampia curva in leggera salita per superare un fosso per tornare poi sempre dolcemente verso il piano lasciandosi alle spalle un ansa. In questa ansa si staglia scheletrico un vecchio frassino che disegna nella volta del cielo grigio di questo inverno che non vuole andare a morire, come mille braccia. Le auto sfrecciano veloci, superano il fosso e ridiscendono correndo verso lo svincolo successivo. Il centro commerciale con il suo sfavillio, con le sue luci, crea un effetto luminoso nella sera che sta scendendo, un globo di luce di questo non luogo a tempo determinato. Verso sud la via Emilia, poi Genestrello e poi ancora Montebello, manciate di case sulla strada . Mi hanno detto che davanti alla Chiesa di Genestrello doveva esserci un piccolo Cimitero. La grande cascina e le stesse mura della chiesa portano ancora i segni di una battaglia che si consumò circa 163 anni fa, i campi le colline e le stesse strade di Montebello furono il teatro di quegli scontri, fino all’arma bianca nelle sue ultime battute, con gli ufficiali italo francesi ed austriaci che si affrontavano a singolar tenzone sugli scalini che dal borgo portano verso l’alto paese, con le luccicanti sciabole sguainate, con gesti di coraggio e cavalleria; altri tempi quando l’onore aveva ancora il suo alto significato e nessuno si sarebbe mai sognato di arretrare davanti al nemico. Gesta eroiche, di grande valore, ma il grande frassino laggiù? Allora era semplicemente una giovane pianta, una pianta vicina ad una casa abbandonata dai suoi abitanti in fuga davanti alla battaglia che stava per avvenire, la storia vuole che da una finestra pendesse una bandiera italiana, mentre un ragazzo seduto per terra con un coltellino stava intagliando un bastone. La storia poi la conosciamo tutti, o almeno tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di aver letto il libro “Cuore”, tanto amato e tanto vituperato, bello e commovente per alcuni, no demagogico e melenso per altri, ognuno la pensi come vuole sta di fatto che su quella pianta salì il ragazzo e ne scese solo dopo essere stato colpito “da palla nemica”. Cadde al suolo, e l’ufficiale che lo aveva fatto prima salire e poi pregato e ordinato di scendere, costernato lo guardava mentre esalava l’ultimo respiro per coprirlo poi con quello stesso stendardo che pendeva dalla finestra. La storia di quell’episodio vuole anche che i bersaglieri che passarono di li coprissero quel piccolo corpo di fiori di campo come nella “Canzone di Piero” di De Andrè. Qualcuno negli anni ha poi dato un nome a quel ragazzo, ha dato una storia alla sua breve vita, ma per tutti gli italiani è sempre stata La Piccola Vedetta Lombarda. Ecco quando andate verso Voghera, appena dopo lo svincolo del Centro Commerciale o venendo da Voghera e vi chiedete se non si poteva tirare diritto senza fare quell’ampia curva, guardate per un attimo quel vecchio frassino che sfiora la strada: ora sembra secco, ma fra qualche settimana tornerà a rinverdire e per un momento dedicate un pensiero, un lampo nella mente, un attimo fuggente a quel ragazzo che anche lui a modo suo ha contribuito a fare l’Italia offrendo il più sublime dei sacrifici. Io lo faccio sempre, ma non è obbligatorio imitarmi. Per lui non c’è stato ne Pomeriggio 5 ne Porta a Porta ma semplicemente una coperta di fiori e una bandiera tricolore. Per il resto sono solo balle da vendere. Ecco ciò che scrive De Amicis nel suo racconto sul libro Cuore:” L'ufficiale stette un poco pensando; poi saltò giù da cavallo, e lasciati i soldati lì, rivolti verso il nemico, entrò nella casa e salì sul tetto... La casa era bassa; dal tetto non si vedeva che un piccolo tratto di campagna. - Bisogna salir sugli alberi, - disse l'ufficiale, e discese. Proprio davanti all'aia si drizzava un frassino altissimo e sottile, che dondolava la vetta nell'azzurro. L'ufficiale rimase un po' sopra pensiero, guardando ora l'albero ora i soldati; poi tutto ad un tratto domandò al ragazzo .ecc. ecc.…..” P.S.:IL PIOPPO BIANCO: Ma prima Don Vittorio Pisotti di buona memoria, appassionato botanico cultore della scienza che studia le piante, ed alcuni amici dopo, mi hanno confermato proprio che di tale pianta si tratta ovvero di un pioppo bianco. Bene allora, ridiamo la dignità che si merita a questo albero.. A proposito il ragazzo si chiamava in realtà Giovanni Minoli (come il giornalista) e morì, nove giorni dopo, di setticemia a Voghera nell’ospedale allestito dove per anni fu ospitato il tribunale. Vi saluto brava gente Sempre per bontà vostra.GIU.BA.

I LUOGHI DELL’ANIMA: Dice Paolo Conte, poeta e gran cerimoniere dell’emozioni del cuore, “come le vecchie drogherie di una volta che tenevano la porta aperta davanti alla primavera” (Boogie) così io quando passavo davanti alla oramai unica drogheria di Casteggio, cercavo di aspirare i profumi che ne uscivano da essa e farne scorta. Erano sempre profumi intensi anche se oggi sono molto attenuati, tutto è imballato, costretto in astucci e scatolette, bottiglie e bustine, ma ricordo a Voghera sotto i portici dell’Duomo, c’erano due drogherie (una esiste e sopravvive ancora: Leardi) passando davanti alle quali si sentivano effluvi di profumi di cannella, noce moscata, zafferano e chiodi di garofano, funghi secchi e aringhe affumicate, mille argentei raggi nel cerchio del barile. Oggi come allora quando passo davanti mi immergo, vado in apnea, inspiro e trattengo dentro di me quei profumi il più possibile come facevo da ragazzo. Sono i luoghi dell’anima, quei piccoli spazi dove a volte hai la sensazione o la pretesa che la coscienza riposi. La panetteria sotto casa a Sestri Ponente dove al mattino era obbligo andare a comprare la focaccia, il cui profumo inondava tutta la via “Sinquanta franchi de fügassa sensa siolle”. Mi ricordo la pianta di pere all’inizio del villaggio, il tramonto rosso e la pianura lontana, oppure la piazza di Navarrete in Rioja in Spagna, in una mattina oramai assolata e caliente e questo angolo della piccola città dove era bello farsi passare il tempo addosso sotto il fresco delle piante, con una fontanella che zampillava e una voce che in italiano con cadenza piemontese chiedeva “Cosa posso portarle….”. Ma i luoghi dell’anima sono anche qui da noi,come le notti magiche con la neve che scende in piazza in un silenzio surreale, niente macchine, niente rumore, solo la neve che scende copiosa sulle spalle di Giuditta e Oloferne immobili e stupiti con la spada immota per sempre e le luci gialle dei lampioni, dove anche i peccatori si fermano e aspettano il perdono. E’ un posto nella valle, in cima ad un monte, sul Lesima a guardare la valle del Borecca, i boschi e le montagne. Ecco i posti dell’anima, trovati i quali si ha la necessità di fermarsi e respirare, ora va di moda dire “staccare la spina” o “resettare la memoria”, tirare il fiato, respirare profondamente e chiudere gli occhi mentre si sente solo il rumore del vento fra gli arbusti e il rumore e di un trattore lontano come il palpitare di un cuore. Vi saluto brava gente Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

I LUOGHI DELL’ANIMA: Dice Paolo Conte, poeta e gran cerimoniere dell’emozioni del cuore, “come le vecchie drogherie di una volta che tenevano la porta aperta davanti alla primavera” (Boogie) così io quando passavo davanti alla oramai unica drogheria di Casteggio, cercavo di aspirare i profumi che ne uscivano da essa e farne scorta. Erano sempre profumi intensi anche se oggi sono molto attenuati, tutto è imballato, costretto in astucci e scatolette, bottiglie e bustine, ma ricordo a Voghera sotto i portici dell’Duomo, c’erano due drogherie (una esiste e sopravvive ancora: Leardi) passando davanti alle quali si sentivano effluvi di profumi di cannella, noce moscata, zafferano e chiodi di garofano, funghi secchi e aringhe affumicate, mille argentei raggi nel cerchio del barile. Oggi come allora quando passo davanti mi immergo, vado in apnea, inspiro e trattengo dentro di me quei profumi il più possibile come facevo da ragazzo. Sono i luoghi dell’anima, quei piccoli spazi dove a volte hai la sensazione o la pretesa che la coscienza riposi. La panetteria sotto casa a Sestri Ponente dove al mattino era obbligo andare a comprare la focaccia, il cui profumo inondava tutta la via “Sinquanta franchi de fügassa sensa siolle”. Mi ricordo la pianta di pere all’inizio del villaggio, il tramonto rosso e la pianura lontana, oppure la piazza di Navarrete in Rioja in Spagna, in una mattina oramai assolata e caliente e questo angolo della piccola città dove era bello farsi passare il tempo addosso sotto il fresco delle piante, con una fontanella che zampillava e una voce che in italiano con cadenza piemontese chiedeva “Cosa posso portarle….”. Ma i luoghi dell’anima sono anche qui da noi,come le notti magiche con la neve che scende in piazza in un silenzio surreale, niente macchine, niente rumore, solo la neve che scende copiosa sulle spalle di Giuditta e Oloferne immobili e stupiti con la spada immota per sempre e le luci gialle dei lampioni, dove anche i peccatori si fermano e aspettano il perdono. E’ un posto nella valle, in cima ad un monte, sul Lesima a guardare la valle del Borecca, i boschi e le montagne. Ecco i posti dell’anima, trovati i quali si ha la necessità di fermarsi e respirare, ora va di moda dire “staccare la spina” o “resettare la memoria”, tirare il fiato, respirare profondamente e chiudere gli occhi mentre si sente solo il rumore del vento fra gli arbusti e il rumore e di un trattore lontano come il palpitare di un cuore. Vi saluto brava gente Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

IL MISTERO DEL CALZINO SPAIATO: Da che mondo è mondo, la lavatrice rende sempre misteriosamente un calzino spaiato. E’ inutile infilare la testa dentro l’oblò come in un film di Mr. Bean, il calzino non si trova. Sembra la bocca della verità di Roma, infili la mano e ravani nel cestello, ma nulla da fare il calzino non c’è più. Inghiottito dalla macchina infernale. Per mia fortuna ho acquistato una serie di calzini grigi uguali, li uso soprattutto per la palestra, in maniera che di riffa o di raffa riesco ha ricomporre una coppia. Però il mistero resta. Oggi pare, che oltre al calzino spaiato, scompaiano anche i coperchi dei contenitori di plastica per conservare i cibi nel frigorifero. Due fette d’arrosto avanzate, le metti con il suo sugo in un contenitore di plastica con l’intenzione di conservarlo in frigo e poi cerchi il relativo coperchio tra tutti quelli di cui sei in possesso. Nulla da fare, ci sono di tutti i tipi e dimensioni meno quello che ti occorre, non ti azzardare a cambiare contenitore perché ricominceresti da capo a cercare un coperchio. Da vecchio tecnico della sicurezza alimentare posso darvi alcuni consigli per questo tipo di conservazione: mai metterli in frigo caldi, metterli nei piani superiori e consumarli il più breve tempo possibile, a meno che voi possediate una macchinetta per il sottovuoto, oramai sono alla portata di tutti, in questo caso potreste allungare il tempo per il consumo (senza esagerare). Resta il fatto che nel frattempo il calzino non lo abbiamo trovato, a meno che non sia finito nel frigo assieme alle due fette di arrosto. E’ bene verificare anche questo. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

IL MISTERO DEL CALZINO SPAIATO: Da che mondo è mondo, la lavatrice rende sempre misteriosamente un calzino spaiato. E’ inutile infilare la testa dentro l’oblò come in un film di Mr. Bean, il calzino non si trova. Sembra la bocca della verità di Roma, infili la mano e ravani nel cestello, ma nulla da fare il calzino non c’è più. Inghiottito dalla macchina infernale. Per mia fortuna ho acquistato una serie di calzini grigi uguali, li uso soprattutto per la palestra, in maniera che di riffa o di raffa riesco ha ricomporre una coppia. Però il mistero resta. Oggi pare, che oltre al calzino spaiato, scompaiano anche i coperchi dei contenitori di plastica per conservare i cibi nel frigorifero. Due fette d’arrosto avanzate, le metti con il suo sugo in un contenitore di plastica con l’intenzione di conservarlo in frigo e poi cerchi il relativo coperchio tra tutti quelli di cui sei in possesso. Nulla da fare, ci sono di tutti i tipi e dimensioni meno quello che ti occorre, non ti azzardare a cambiare contenitore perché ricominceresti da capo a cercare un coperchio. Da vecchio tecnico della sicurezza alimentare posso darvi alcuni consigli per questo tipo di conservazione: mai metterli in frigo caldi, metterli nei piani superiori e consumarli il più breve tempo possibile, a meno che voi possediate una macchinetta per il sottovuoto, oramai sono alla portata di tutti, in questo caso potreste allungare il tempo per il consumo (senza esagerare). Resta il fatto che nel frattempo il calzino non lo abbiamo trovato, a meno che non sia finito nel frigo assieme alle due fette di arrosto. E’ bene verificare anche questo. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

CASABLANCA

CASABLANCA "Dove sei stato ieri sera" "E' passato troppo tempo, non me ne ricordo" "Ci vedremo questa sera?" " Non faccio mai piani così in anticipo"

BANDOLERO STANCO: Alla domanda se c’è una canzone che mi rappresenta, io ironicamente rispondo “El bandolero stanco” di Roberto Vecchioni.

BANDOLERO STANCO: Alla domanda se c’è una canzone che mi rappresenta, io ironicamente rispondo “El bandolero stanco” di Roberto Vecchioni. "Sarà forse il vento che non l'accarezza più. Sarà il suo cappello che da un po' non gli sta su. Sarà quella ruga di ridente nostalgia. O la confusione tra la vita e la poesia. Non assalta treni perché non ne passan mai. Non rapina banche perché i soldi sono i suoi. Vive di tramonti e di calcolati oblii. E di commoventi, ripetuti lunghi addii. Struggenti addii. Ha una collezione insuperabile di taglie. Molte, tutte vuote già da tempo, le bottiglie. Dorme sul cavallo che non lo sopporta più. E si è fatto un culo per la pampa su e giù. Ogni notte passa e getta un fiore a qualche porta. Rosso come il sangue del suo cuore di una volta. Poi galoppa via fino all'inganno dell'aurora. Dove qualche gaucho giura di sentirlo ancora. Cantare ancora". Siamo un po’ tutti dei bandoleri stanchi, sopra tutto quelli nati tra il 40’ e il 50’ del secolo scorso. Il bandolero non è che l’ennesimo “grande vecchio”, bandito generoso di altri tempi, in chiave musicale sudamericana, si muovono e rivivono rivoluzionari, passionari, sognatori di ogni luogo, un “che guevara” de noartri inarrestabile eroe rivisto con gli occhi di un suo contemporaneo. Si nasce incendiari e si muore pompieri. Una analisi critica da parte dei più, si inizia considerandolo con “un giovane emergente” per continuare poi con “il solito stronzo” e per finire come “un venerato maestro” e non solo nel mondo del cinema. C’è stanchezza nei modi, nei sogni infranti, mi viene in mente l’ultima frase del Sergente Lo Russo di Mediterraneo oramai vecchio: “Non si viveva poi così bene in Italia, non ci hanno lasciato cambiare niente... e allora gli ho detto... avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice... così gli ho detto, e son tornato qui...”. Ma è la frase dei titoli di coda che dedica a tutti quei bandoleri stanchi un pensiero comune: “Dedicato a tutti quelli che stanno scappando” o almeno a quelli che hanno tentato di scappare ma alla fine, come il bandolero, hanno rinunciato forse proprio per stanchezza, per disillusione o forse più semplicemente per comodità. Un bandolero da divano, i treni per Yuma sono solo un lontano ricordo e così si aspetta l’accredito del bonifico con aria stanca tra i cuscini della poltrona che oramai hanno preso la forma del tuo culo. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

DIAMOCI DEL TE':  Ero ancora un praticante giornalista e il mio Maestro Don Ernesto Vercesi da Santa Giuletta, ogni tanto mi mandava in qualche posto per fare un servizio, un pezzo :” Và ti cat ghè la muda” oppure “tu che conosci i congiuntivi”. Sta di fatto che una volta mi mandò ad assistere una sorta di Consiglio comunale aperto in un paese del nostro Oltrepo’ di cui non è bene che faccia il nome, sono anche passati più di 50 anni. L’amministrazione era comunista, PCI per intenderci, e a fare da relatore era arrivato un altezzoso funzionario di partito. Immaginatevi una situazione alla “Peppone” di buona memoria. Il personaggio prese la parola e rivolgendosi al Sindaco, pure lui comunista, disse “Compagno Sindaco tu dovresti…..” ma il “compagno Sindaco” scattò come una molla dicendo” Lei del tè a me non me lo dà, io sono il Sindaco…..”. A parte il “tè” questa uscita mi fu estremamente simpatica, lui era il Sindaco ma non solo di una parte ma di tutti i suoi compaesani e da costui, foresto, esigeva il “lei”. Ecco questo preambolo per sottolineare come oggi il vezzo di dare del tu a tutti stia dilagando. Sono cresciuto in una famiglia di esercenti, bar, ristoranti e alberghi e mia mamma, quando andavamo ad aiutare, ci insegnava come comportarci con i clienti e una delle prime cose che ci diceva era “Al cliente ci si deve rivolgere sempre con il “lei” e mai e poi mai con il “tu” e non solo per una forma di rispetto ma anche per dare importanza al cliente. Quando entrando in un negozio la commessa o il commesso mi si rivolge dandomi del tu io friggo, vorrei rispondere con :”abbiamo mai mangiato il riso assieme?”, ma mi trattengo e rivolgendomi al personaggio insisto nel dare del lei fino a quando, capendo l’antifona, cambia registro e obtorto collo, usa anch'egli il lei. Ma di questi esempi ne avrei decine, ho vissuto assai e le cose del mondo ne ho visto parecchie. Questo pezzo è stato causato da una nota intrattenitrice televisiva, la quale, forte della sua posizione dominante “io dirigo la baracca e faccio ciò che mi pare”, ha il vezzo di dare del tu a tutti: tu avvocato, tu professore, tu onorevole, governatore ecc. ecc. e non è vero che è una abitudine meridionale, in Sicilia quando si rivolgono alcuni danno addirittura del voi. E’ proprio lei che è convinta di avere l’incondizionato permesso di mancare di rispetto all’interlocutore “Ti concedo di farti vedere a mezzo mondo e ti tratto come mi pare, anche se sei un Premio Nobel”.. Per alcuni di loro non ha senso vivere senza apparire. La vita è solo questo: “essere visti, appaio ergo sum” e tu sei autorizzato a darmi del tu come ti pare. Io mi alzerei e verrei via, ma il mondo oggi va così e non credo di poterlo cambiare. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

DIAMOCI DEL TE': Ero ancora un praticante giornalista e il mio Maestro Don Ernesto Vercesi da Santa Giuletta, ogni tanto mi mandava in qualche posto per fare un servizio, un pezzo :” Và ti cat ghè la muda” oppure “tu che conosci i congiuntivi”. Sta di fatto che una volta mi mandò ad assistere una sorta di Consiglio comunale aperto in un paese del nostro Oltrepo’ di cui non è bene che faccia il nome, sono anche passati più di 50 anni. L’amministrazione era comunista, PCI per intenderci, e a fare da relatore era arrivato un altezzoso funzionario di partito. Immaginatevi una situazione alla “Peppone” di buona memoria. Il personaggio prese la parola e rivolgendosi al Sindaco, pure lui comunista, disse “Compagno Sindaco tu dovresti…..” ma il “compagno Sindaco” scattò come una molla dicendo” Lei del tè a me non me lo dà, io sono il Sindaco…..”. A parte il “tè” questa uscita mi fu estremamente simpatica, lui era il Sindaco ma non solo di una parte ma di tutti i suoi compaesani e da costui, foresto, esigeva il “lei”. Ecco questo preambolo per sottolineare come oggi il vezzo di dare del tu a tutti stia dilagando. Sono cresciuto in una famiglia di esercenti, bar, ristoranti e alberghi e mia mamma, quando andavamo ad aiutare, ci insegnava come comportarci con i clienti e una delle prime cose che ci diceva era “Al cliente ci si deve rivolgere sempre con il “lei” e mai e poi mai con il “tu” e non solo per una forma di rispetto ma anche per dare importanza al cliente. Quando entrando in un negozio la commessa o il commesso mi si rivolge dandomi del tu io friggo, vorrei rispondere con :”abbiamo mai mangiato il riso assieme?”, ma mi trattengo e rivolgendomi al personaggio insisto nel dare del lei fino a quando, capendo l’antifona, cambia registro e obtorto collo, usa anch'egli il lei. Ma di questi esempi ne avrei decine, ho vissuto assai e le cose del mondo ne ho visto parecchie. Questo pezzo è stato causato da una nota intrattenitrice televisiva, la quale, forte della sua posizione dominante “io dirigo la baracca e faccio ciò che mi pare”, ha il vezzo di dare del tu a tutti: tu avvocato, tu professore, tu onorevole, governatore ecc. ecc. e non è vero che è una abitudine meridionale, in Sicilia quando si rivolgono alcuni danno addirittura del voi. E’ proprio lei che è convinta di avere l’incondizionato permesso di mancare di rispetto all’interlocutore “Ti concedo di farti vedere a mezzo mondo e ti tratto come mi pare, anche se sei un Premio Nobel”.. Per alcuni di loro non ha senso vivere senza apparire. La vita è solo questo: “essere visti, appaio ergo sum” e tu sei autorizzato a darmi del tu come ti pare. Io mi alzerei e verrei via, ma il mondo oggi va così e non credo di poterlo cambiare. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

RIDIAMO UN POCO SU

TROVATO NELLE PIEGHE DELLA RETE UNA SELEZIONE DI ANNUNCI TROVATI NELLE BACHECHE DELLE PARROCCHIE DOVE L’INGENUITA’ E QUALCHE CARENZA GRAMMATICALE PRODUCONO RISULTATI STREPITOSI:

• Per tutti quanti tra voi hanno figli e non lo sanno, abbiamo un’area attrezzata per i bambini.

• Giovedì alle 5 del pomeriggio ci sarà un raduno del Gruppo Mamme. Tutte coloro che vogliono far parte delle Mamme sono pregate di rivolgersi al Parroco nel suo ufficio.

• Il gruppo di recupero della fiducia in se stessi si riunisce giovedì sera alle 7. Per cortesia usate le porte sul retro.

• Venerdì sera alle 7 i bambini dell’oratorio presenteranno l’Amleto di Shakespeare nel salone della Chiesa. La comunità è invitata a prendere parte a questa tragedia.

• Care signore, non dimenticate la vendita di beneficenza. E’ un buon modo per liberarvi di tutte quelle cose inutili che vi ingombrano la casa. Portate i vostri mariti.

• Tema della catechesi di oggi:” Gesù cammina sulle acque”. Catechesi di domani : ” In cerca di Gesù”.

• Il coro degli ultrasessantenni, verrà sciolto per tutta l’estate, con i ringraziamenti di tutta la Parrocchia.

• Ricordate nella preghiera tutti quanti sono stanchi e sfiduciati della nostra Parrocchia.

• Il torneo di basket delle Parrocchie prosegue con la partita di mercoledì sera; venite a fare il tifo per noi mentre cercheremo di sconfiggere il Cristo Re.

• Il costo per la partecipazione al convegno su “preghiera e digiuno” è comprensivo dei pasti.

• Per favore mettete le vostre offerte nella busta, assieme ai defunti che volete far ricordare.

• Il Parroco accenderà la sua candela da quella dell’altare. Il Diacono accenderà la sua candela da quella del Parroco e voltandosi accenderà ad uno ad uno tutti i fedeli in prima fila.

• Martedì sera cena a base di pasta e fagioli nel salone parrocchiale. Seguirà concerto.

Sempre per bontà vostra GIU.BA.

IO SE FOSSI DIO.......

IO SE FOSSI DIO: Quando mi sento nauseato o stomacato da quel che vedo leggo e sento, nell’attuale società, mi vien voglia di ascoltare per l’ennesima volta “Io se fossi Dio” di Giorgio Gaber. Io Giorgio Gaber l’ho conosciuto quando, ancora ragazzo (lui ma anche io), veniva all’Ariston di Voghera e suonava con il suo complesso al pomeriggio “la matinée” per noi giovincelli brufolosi e poi alla sera per i più grandi. Allora suonava e cantava “Le strade di notte” e “Non arrossire”, “una fetta di limone” e altro e noi ragazzi stavamo sotto il palco per cercare di catturare più note possibili. Come tutti allora cercavo di suonare la chitarra e proprio da lui mi feci dare lo spartito originale di “le strade di notte”, chissà dove è finito ora. Poi Gaber ha svoltato genere e si è dato ad un genere più impegnato, è diventato il Signor G. Ebbene tra le sue canzoni, chiamiamole così, quella che mi ha più colpito tra le altre è proprio questa di cui possiedo tutt’ora il disco in vinile originale, quello con una sola facciata. Oggi faccio esercizio mentale sostituendo i nomi e i partiti di allora con i nomi e i partiti attuali e ho scoperto che cambieranno anche i nomi ma il significato è sempre quello. Non vedo l’ora che eleggano il nuovo Presidente della Repubblica per poter dire anch’io “Questo non è il mio Presidente” a prescindere chi sia, o come qualcuno dice “Questo non è il mio Papa” o il mio governatore o il mio sindaco o il mio amministratore di condominio, così giusto per essere contro. Contro cosa? Appunto a prescindere: contro…..e basta!!!!! La prossima volta presentati tu e fatti eleggere tanto ci sarà sempre uno o più che dirà ”Questo non è il mio ……..” attenzione sempre se lo si potrà ancora dire perché “La fattoria degli animali” di George Orwell è sempre attuale. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

"Io se fossi Dio Maledirei davvero i giornalisti.

E specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Compagni giornalisti avete troppa sete

E non sapete approfittare delle libertà che avete.

Avete ancora la libertà di pensare

Ma quello non lo fate E in cambio pretendete la libertà di scrivere.

E di fotografare Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questa Italia piena di sgomento Come siete coraggiosi, voi che vi buttate

Senza tremare un momento. Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti.

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima in primo piano

Sì, vabbe', lo ammetto La scomparsa dei fogli e della stampa

Sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio Di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione della democrazia

Ma io non sono ancora Nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato Nei vostri sfaceli"

Giorgio Gaber

Il monumento a Orlando o Rolando o anche Roldan a Alto de Ibaneta. La foto è la mia. giu.ba.

Il monumento a Orlando o Rolando o anche Roldan a Alto de Ibaneta. La foto è la mia. giu.ba.

PÃMPÃ

PÃMPà Non si legge Pampa come le sterminate pianure argentine, ma PÃMPà che letto in dialetto vogherese aveva un altro significato. C’era un tassista davanti alla stazione di Voghera che ne era un vero cultore, infatti PÃMPà era un burattinaio alessandrino che ogni tanto faceva tappa a Voghera. Erano i componenti della famiglia Sarina, io li andavo a vedere in un saloncino che si trovava sotto la mensa ferrovieri di Via Scovenna e che a volte funzionava anche da sala da ballo, se non ricordo male era “La Lucciola”. In questo saloncino la famiglia Sarina, “PÃMPÔ appunto, ci faceva rivivere le imprese del Paladini di Francia: Orlando o Rolando, Carlo Magno, il traditore Gano di Maganza, la bella Angelica, i mori e i vari personaggi più o meno frutto della fantasia dei Sarina come il Tascone (quello che arrivava sempre due)ecc. ecc. Il pubblico partecipava rumorosamente alla vicende che accadevano durante lo spettacolo. Mi ricordo una frase, una delle tante detta da un paladino socio di Orlando (o Rolando che dir si voglia) forse Rinaldo: “Amici vi lascio, torno nelle mie opulenti terre di Catalogna”. E la nostra fantasia galoppava sulle ali del racconto. Ma, mi domandavo, come saranno queste opulenti terre di Catalogna? Da adulto ho poi avuto occasione di vederle queste opulenti terre di Catalogna, ma anche di più. Un anno stavo scendendo dai Pirenei verso Roncisvalle (Orreaga in lingua Basca) e mi dirigevo verso la Collegiata che si vedeva laggiù nella valle. Vi erano due soluzioni per raggiungere il paese: discendere lungo un ghiaione e raggiungere abbastanza velocemente la meta, oppure una comoda ma un poco più lunga strada asfaltata che si dipartiva alla destra del bosco dal quale ero appena uscito e questa dava la possibilità di passare innanzi alla chiesetta dell’Alto de Ibaneta. Scelsi la seconda soluzione, ma soprattutto l'occasione di passare innanzi al monumento che ricorda l’agguato, l’imboscata e la morte del prode Orlando e quando ti trovi davanti a questo monumento (vedi mia foto) per un attimo ti rendi conto di far parte della storia. Ma ti rendi pure conto che questa situazione, tutta questa storia era cominciata un pomeriggio di tanto tempo fa guardando dentro una baracchetta dove si muovevano dei burattini che si agitavano e raccontavano l’eterna storia dei Paladini di Francia e grazie proprio a questo signore che si chiamava Sarina ma che per tutti era PÃMPÃ. La vera storia di Orlando e del suo tragico epilogo viene ancora oggi raccontata alla sera negli ostelli del Cammino di Santiago, nelle cene comunitarie, quando il vino scioglie le lingue, anzi le fa diventare tutte uguali l’anglo-franco-espagnolo ed è bello farsi scivolare il tempo addosso senza dolore. Furono i mori o i briganti baschi a tendere un agguato a Orlando? certo è che lo Zio Carlo Magno fece terra bruciata da li sino a Logroño per vendicare il nipote. Chissà se PÃMPà lo sapeva. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

Prof. PIETRO CARMINA

Sono particolarmente orgoglioso poichè durante il messaggio di fine anno del Presidente Mattarella, ha citato la lettera del Prof. Pietro Carmina, deceduto a seguito del crollo della palazzina di Ravanusa, nella sua "lettera ai miei studenti". Quella lettera io l'avevo pubblicata il15 di dicembre su questo mio blog. Avevo visto giusto, quella lettera meritava ampio e giusto spazio e il Presidente lo ha dato. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

E LAVORARE E' BELLO

E LAVORARE E’ BELLO “E lavorare è bello, è bello lavorar, prendiamo su il martello e andate a lavorar”. Ma non solo: “Amo il lavoro, lo amo a tal punto che starei ore a guardare la gente che lavora”. Sto leggendo con grande piacere e curiosità l’ultimo libro di Giulio Guderzo, professore all’Università di Pavia e mio primo Capo Scout che assieme ad Umberto Magnani (purtroppo già tornato alla casa del Padre) altro mio Capo Scout e alla cui stesura ha collaborato anche l’Architetto Giuseppe (Pino) Calvi, (da non confondere con il Maestro Calvi) intitolato “UN’ALTRA VOGHERA”, un saggio sulla storia della città dal ‘800 in poi (ma anche prima) al quale oggi, 23/12/21, la Provincia Pavese ha dedicato un lungo articolo nelle pagine della cultura. Ma ciò che mi ha interessato maggiormente nella prima parte del libro è stata la “mercede giornaliera” che un lavoratore riusciva a spuntare attorno al 1828. Il compenso in assoluto più alto lo spuntava allora il Capo Operaio della Cereria Capua che percepiva 3 lire al giorno e poi da quella cifra si scendeva sino ad arrivare a 0,60 centesimi al giorno per il più basso nella scala gerarchica della manodopera. Purtroppo non ho trovato un termine di paragone, ad esempio: cosa costava un kilogrammo di pane? Da sempre negli ambiti professionali dove mi sono trovato sono stato sostenitore del salario minimo, ovvero quanto deve guadagnare una persona, sia uomo o donna, all’ora come dignitosa “giusta mercede”. Io ho sempre detto e sostenuto che il minimo all’ora deve essere di €.7,50 netti, per quanto bassa possa essere la manovalanza, questo è il minimo che si dovrebbe riconoscere al lavoratore. Quando leggo che viene offerto il lavoro a 2€uro all’ora rabbrividisco e mi domando: “ Ma cercate dipendenti o schiavi?”. E guardate bene che non si tratta di bassa manovalanza agricola nel Sud Italia, ma di offerte reali che potete anche trovare negli annunci economici dei quotidiani. Nel lavoro oramai è una giungla di tipologie di contratti: tempo determinato, indeterminato, part-time, CO.CO.CO., CO.CO.PRO., stagisti a tempo interminato (tutta la vita), lavori “somministrati” e se volete andatevi a leggere i Contratti di Somministrazione e poi a tavola guardate negli occhi ai vostri figli e/o ai vostri nipoti e chiedetevi come faranno a vivere o a farsi una famiglia. Ma non solo, in questi ultimi tempi, è tornato, haimè, in auge il problema della sicurezza sul lavoro, troppi morti sul lavoro, 1.017 in crescita nel 2021., uomini, donne, giovani operai che escono alla mattina per andare a lavorare e a casa non ci tornano più! Ero un ragazzino, abitavo a Sestri Ponente a casa di una mia zia e ho vissuto questa esperienza: il fratello di mio padre è uscito per andare a lavorare e non è più tornato e lo strazio di mia nonna e della zia, presso la quale viveva, agli occhi di un ragazzino resterà impresso per sempre. Fulminato all’interno di una cabina elettrica! Ma sapete quanti erano in Parlamento ad ascoltare l’interrogazione del Ministro del Lavoro sulla sicurezza sul lavoro: 70, 70 parlamentari, così come è successo qualche giorno prima per la giornata contro la violenza sulle donne (60) e forse un mese fa stesse presenze per discutere il DDL Zan. E questi li paghiamo profumatamente e ora possiamo anche capire perché sperano che questo Governo duri a lungo, perché al prossimo saranno dimezzati. A loro dedico il premio Giachetti di oggi: https://www.youtube.com/watch?v=oVXy2knZHTA. Buona visione. Mi sto incazzando, è meglio che la pianti li. Vi saluto brava gente. Sempre per bontà vostra. GIU.BA. 

Questa volta non ho scritto nulla ma ho copiato, ho copiato perché ne valeva la pena, perché anche nella tragedia scopri che esistono ancora

Questa volta non ho scritto nulla ma ho copiato, ho copiato perché ne valeva la pena, perché anche nella tragedia scopri che esistono ancora "PERSONE" scritte in maiuscolo, per cui vale la pena conoscere. Io ho fatto studi tecnici, ho avuto anch'io prof. di levatura, quelli di una volta quelli che, per nostra fortuna e per fortuna dei nostri ragazzi esistono ancora. Vi propongo questa lettera e fatevi venire il groppo alla gola così come è venuto a me. Sempre per bontà vostra GIU.BA. “Ai miei ragazzi, di ieri e di oggi. Ho appena chiuso il registro di classe. Per l’ultima volta. In attesa che la campanella liberatoria li faccia sciamare verso le vacanze, mi ritrovo a guardare i ragazzi che ho davanti. E, come in un fantasioso caleidoscopio, dietro i loro volti ne scorgo altri, tantissimi, centinaia, tutti quelli che ho incrociato in questi ultimi miei 43 anni. Di parecchi rammento tutto, anche i sorrisi, le battute, i gesti di disappunto, il modo di giustificarsi, di confidarsi, di comunicare gioie e dolori, di altri, molti in verità, solo il viso o il nome. Con alcuni persistono, vivi, rapporti amichevoli, ma il trascorrere del tempo e la lontananza hanno affievolito o interrotto, ahimè, quelli con tantissimi altri. Sono arrivato al capolinea ed il magone più lancinante sta non tanto nell’essere iscritto di diritto al club degli anziani, quanto nel separarmi da questi ragazzi. A tutti credo aver dato tutto quello che ho potuto, ma credo anche di avere ricevuto di più, molto di più.Vorrei salutarvi tutti, quelli che incontro per strada, quelli che mi siete amici sui social, e, tramite voi, anche tutti gli altri, tutti, ed abbracciarvi ovunque voi siate. Vorrei che sapeste che una delle mie felicità consiste nel sentirmi ricordato; una delle mie gioie è sapervi affermati nella vita; una delle mie soddisfazioni la coscienza e la consapevolezza di avere tentato di insegnarvi che la vita non è un gratta e vinci: la vita si abbranca, si azzanna, si conquista. Ho imparato qualcosa da ciascuno di voi, e da tutti la gioia di vivere, la vitalità, il dinamismo, l’entusiasmo, la voglia di lottare. Gli anni del liceo, per quanto belli, non sempre sono felici né facili, specialmente quando avete dovuto fare i conti con un prof. che certe mattine raggiungeva livelli eccelsi di scontrosità e di asprezza, insomma …. rompeva alla grande. Ma lo faceva di proposito, nel tentativo di spianarvi la strada, evidenziandone ostacoli e difficoltà. Vi chiedo scusa se qualche volta non ho prestato il giusto ascolto, se non sono riuscito a stabilire la giusta empatia, se ho giudicato solo le apparenze, se ho deluso le aspettative, se ho dato più valore ai risultati e trascurato il percorso ed i progressi, se, in una parola, non sono stato all’altezza delle vostre aspettative e non sono riuscito a farvi percepire che per me siete stati e siete importanti, perché avete costituito la mia seconda famiglia. Un’ultima raccomandazione, mentre il mio pullman si sta fermando: usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha; non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi: infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non “adattatevi”, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa: voi non siete il futuro, siete il presente. Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare, non state tutto il santo giorno incollati a cazzeggiare con l’iphone. Leggete, invece, viaggiate, siate curiosi (rammentate il coniglio del mondo di Sofia? ).Io ho fatto, o meglio, ho cercato di fare la mia parte, ora tocca a voi. Le nostre strade si dividono, ma ricordate che avete fatto parte del mio vissuto, della mia storia e, quindi, della mia vita. Per questo, anche ora che siete grandi, per un consiglio, per una delusione, o semplicemente per una risata, un ricordo o un saluto, io ci sono e ci sarò. Sapete dove trovarmi. Ecco. Il pullman è arrivato. Io mi fermo qui. A voi, buon viaggio”. Prof. Pietro Carmina perito nella tragedia di Ravanusa che, fino a tre anni fa (prima della pensione) insegnava filosofia agli studenti del dell’istituto Foscolo di Canicattì.

“A me mi ha rovinato la guerra”

 “Fat tusà” era il grido di guerra di quelli contrari ai capelloni, ovvero quei ragazzi che nei primi anni ’60 avevano deciso di farsi crescere i capelli, una cosa, oggi come oggi impensabile, allora era una moda dilagante, anche perché di capelloni ce ne sono rimasti pochi mentre per il resto sono solo pelati e crestati come Balotelli o Vidal. A proposito di mode, sono convinto che se Fedez o sua moglie si presentasse in giro con un bidè sotto braccio i venditori di sanitari farebbero i miliardi. Vanno di moda i tatuati di costoro ne riparleremo, almeno voi ne riparlerete tra 20 anni, quando avremo delle attempate signore in spiaggia con il tatuaggio etnico sull’osso sacro. Sentita in piazza anni fa : “Adess me chi faran a porta a cà kullà cla mort in tla lona”, “ma chi???” – “ma si Luis Amstrong cul cla andat in tla lona” certo, ma era Neil ed è mancato alcuni anni fa. Poche idee ma ben confuse. Non preoccuparti, tu pensa a mettere dentro Jorgigno e le foto osè di Arisa e sbatti in copertina Al Bano che fa sempre audience, che al resto qualcuno ci penserà. Ciumbia, roba da non dormire la notte. Mi pare di sentirlo il frastuono di queste notizie che hanno percorso come un brivido ghiacciato la spina dorsale della penisola dalle Alpi a Capo Passero, un grido che ha accomunato tutti gli italiani in una sola voce, un grido potente che si è levato altissimo, altro che il coro dell’Adelchi(*), un unico grido….. MA CHI SE NE FREGA!!!!!!!! Mi ricordo, nel primo dopoguerra, i gagà (leggasi play boy) o presunti tali, per far colpo sulla ragazze amavano dire: “A me mi ha rovinato la guerra e le donne, ora mi vedi così ma prima ero ………”, ora, che non possiamo più vantare passati belligeranti, ci rifugiamo in altre scuse ben più banali per giustificare una forma fisica decadente (COVID compreso) e che tornerà in auge appena saranno passate le feste, le palestre riapriranno e saremo succubi di tirannici personal trainer. Alcuni errori di ortografia sono voluti, così evito di essere arringato per strada al grido “beva meno, maes-cia”. A proposito di errori di ortografia sentite questa: All’atto della correzione dei compiti per il concorso in magistratura, svoltosi dal 12 al 16 luglio 2021, da 310 posti, su 5.827 candidati hanno consegnato il test 3.797, ma la maggior parte è stata poi bocciata alla prova scritta, con l’amara considerazione che la maggior parte dei candidati, tutti laureati, non sa scrivere. Anche se le correzioni sono ancora in corso, i numeri parlerebbero chiaro, sottolinea Il Messaggero: “Alla data del 2 dicembre la commissione ha esaminato 1532 buste (ognuna contiene due elaborati) e sono stati definiti idonei solo 88 di questi”. Poi tu vatti a fidare........Ma di questo avremo ampio spazi nelle mie conversazioni future. Questa volta ci siamo divertiti, la prossima vedremo!!!! Un abbraccio. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

(*)Dagli atrj muscosi, dai fori cadenti

Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,

Dai solchi bagnati di servo sudor,

Un volgo disperso repente si desta;

Intende l’orecchio, solleva la testa

Alessandro Manzoni

TANTO PER DIRE

A proposito di Mario Giordano, su cui se ne sono sentite di ogni in questi giorni, vorrei ricordare a tutti o a tanti questa frase: “Non sono d’accordo con quello che dici ma darei la vita affinché tu possa dirlo sempre” erroneamente attribuita a Voltaire. E poi, scusate, esiste sempre il telecomando.  GIU.BA.

LA PORTA:  Girando per l’Oltrepo’ a piedi ma anche in macchina, mi capita spesso di vedere vecchie case coloniche abbandonate circondate a volte da vigneti o boschi, al limite delle colline o vicine a un torrente, ma anche case sulla via Emilia chiuse da tempo con un triste cartello appeso sulla porta “VENDESI”. Le finestre chiuse, le persiane che mostrano l’ingiuria del tempo che passa, qualche persiana è in pericoloso bilico, vetri rotti e ragnatele. Muri ormai scrostati e tetti fatiscenti. Ma il pensiero che mi percorre la mente quando incontro queste situazioni, non sono le condizioni attuali, ma il pensiero va a ciò che avveniva dietro quelle porte, che vita c’era, che famiglia viveva la dietro. Da quella porta è uscita una sposa vestita di bianco con i parenti che applaudivano, oppure un bambino correva fuori per andare a giocare. Da quelle finestre si affacciava qualcuno in attesa, un uomo tornava dai campi a sera stanco ed affamato, si toglieva le scarpe seduto su una panca di legno o di pietra e guardava tramontare il sole. E dove saranno ora? Saranno andati in paese o in città, saranno andati ad abitare altre case con l’acqua e il riscaldamento, la luce elettrica e il bagno con la vasca o saranno passati via. Una casa, si deve poter dire casa quel luogo dove a sera e chiusa la porta, si può lasciare fuori il mondo, basta una minestra. Casa è il posto degli affetti, il posto del cuore, quella, la casa, verso la quale torneresti anche anni dopo, anche se nessuno abita più li o addirittura se è stata abbattuta. E le porte, quelle che si affacciano sul mondo, sono l’ultima barriera: di qui il posto del cuore e degli affetti e di la il caos. Non importa se entrando da quelle porte vieni assalito dal cavolo che bolle sulla stufa o dalle bucce di mandarino che abbrustoliscono sui cerchi roventi, quella è la casa e quelle porte, anche se oramai in disuso, sgretolate dal tempo, sono il coperchio dello scrigno che nulla e nessuno potrà mai cancellarne il contenuto. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

LA PORTA: Girando per l’Oltrepo’ a piedi ma anche in macchina, mi capita spesso di vedere vecchie case coloniche abbandonate circondate a volte da vigneti o boschi, al limite delle colline o vicine a un torrente, ma anche case sulla via Emilia chiuse da tempo con un triste cartello appeso sulla porta “VENDESI”. Le finestre chiuse, le persiane che mostrano l’ingiuria del tempo che passa, qualche persiana è in pericoloso bilico, vetri rotti e ragnatele. Muri ormai scrostati e tetti fatiscenti. Ma il pensiero che mi percorre la mente quando incontro queste situazioni, non sono le condizioni attuali, ma il pensiero va a ciò che avveniva dietro quelle porte, che vita c’era, che famiglia viveva la dietro. Da quella porta è uscita una sposa vestita di bianco con i parenti che applaudivano, oppure un bambino correva fuori per andare a giocare. Da quelle finestre si affacciava qualcuno in attesa, un uomo tornava dai campi a sera stanco ed affamato, si toglieva le scarpe seduto su una panca di legno o di pietra e guardava tramontare il sole. E dove saranno ora? Saranno andati in paese o in città, saranno andati ad abitare altre case con l’acqua e il riscaldamento, la luce elettrica e il bagno con la vasca o saranno passati via. Una casa, si deve poter dire casa quel luogo dove a sera e chiusa la porta, si può lasciare fuori il mondo, basta una minestra. Casa è il posto degli affetti, il posto del cuore, quella, la casa, verso la quale torneresti anche anni dopo, anche se nessuno abita più li o addirittura se è stata abbattuta. E le porte, quelle che si affacciano sul mondo, sono l’ultima barriera: di qui il posto del cuore e degli affetti e di la il caos. Non importa se entrando da quelle porte vieni assalito dal cavolo che bolle sulla stufa o dalle bucce di mandarino che abbrustoliscono sui cerchi roventi, quella è la casa e quelle porte, anche se oramai in disuso, sgretolate dal tempo, sono il coperchio dello scrigno che nulla e nessuno potrà mai cancellarne il contenuto. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

Q.R.CODE ovvero U.C.A.S. Ufficio complicazioni affari semplici

Q.R.CODE ovvero U.C.A.S. Ufficio complicazioni affari semplici

GIULIANO PENSIERO DI FINE NOVEMBRE.

 U.C.A.S. acronimo di Ufficio Complicazioni Affari Semplici. Esiste un Ministero della Semplificazione e della Pubblica Amministrazione, il Ministro è attualmente il Prof. Renato Brunetta. A cosa si propone questo Ministero alla semplificazione ovvero: La semplificazione si realizza attraverso interventi normativi, amministrativi, organizzativi e tecnologici finalizzati a ridurre il peso della burocrazia su cittadini e imprese. Ordunque, devo pagare la bolletta della luce ENEL, del mio condominio, mi è arrivato via mail l’avviso e il relativo foglio per procedere al pagamento con il QR CODE, ovvero quella serie di piccoli quadratini che possono elevarsi all’infinito, vedi Green Pass, rilevabili solo da apposito strumento che dovrebbero indicare tutti quei parametri identificativi dell’utente. Una volta arrivava il bollettino con la cifra da pagare, andavi in posta dopo averlo compilato e pagavi mentre l’addetto con un colpo secco timbrava la tua ricevuta e te ridava una parte. Poi il bollettino arrivò già compilato e l’addetto lo infilava in una fessura di una stampante e da li usciva già timbrato. Comodo. Arrivò anche la domiciliazione, direttamente in banca se avevi il C/C abilitato a questa funzione. Tutto questo per agevolare chi, non potendo o non avendo la possibilità di accedere a certe tecnologie, doveva pagare tasse utenze ecc. ecc. Ora arriva il QR.CODE, e va bhè ci adatteremo anche a questo, a meno che……..Questa mattina mi sono recato in posta, ma l’addetto mi ha avvertito che il sistema di pagamento QR.CODE delle poste era bloccato “Provi in tabaccheria o in un super mercato” E va bene!! Andrò in tabaccheria. Ma la gentile tabaccaia mi faceva sapere che il sistema abbinato alle varie macchinette Super Enallotto non funzionava, anzi forse e dico forse funzionavano solo con il Bancomat. Va bene useremo il Bancomat purché si riesca a pagare. Niente da fare. “Provi in un’altra tabaccheria” ma la risposta fu la medesima anche in altra tabaccheria. “Non provi ad andare al supermercato, abbiamo ricevuto un messaggio che il sistema è bloccato in tutta Italia”. Andrò direttamente all’punto ENEL ma sono certo che l’addetto mi dirà che lui non è autorizzato a ricevere denaro e il suo Bancomat non funziona, e poi apre solo al pomeriggio. Caro e Chiarissimo Prof. Renato Brunetta attuale Ministro della Semplificazione ho l’impressione che Lei sia come quel Generale che al grido di “Avanti miei prodi” si gira scopre di essere solo, perché i suoi prodi non erano arrivati, c’era sciopero dei mezzi, avevano bucato la gomma, avevano il vestito in lavanderia e la sveglia non aveva suonato. Forse più semplicemente perché il sistema non è pronto. Forse è meglio tornare al bollettino postale, con il timbro (Checco Zalone docet). Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

Eccola

Eccola "A TRIPPA" questa che vedete è la mitica trippa del "Povero Nando".....bona!!!|!|

TANTO PER DIRE

"Ma che volete 'a trippa?" Alberto Sordi direttore di sala, Christian De Sica & Massimo Boldi...senza dimenticare la bravissima Nadia Rinaldi, quattro parvenus al ristorante tres chic, "Salvatore, porta quattro trippe a sti........signori! Che spettacolo! da "Vacanze di Natale' 91".

L’EVOLUZIONE DELLA CARTA IGIENICA:    Dopo l’evoluzione del bianchino, scritto tempo fa, un amico mi ha involontariamente suggerito questo argomento ovvero l’evoluzione della carta igienica. Amarcord ovvero mi ricordo che da bambino presso i “cessi” esisteva un chiodo, ma anche un gancio attaccato da qualche parte, dove erano appesi foglietti di giornale. Mi ricordo pure che qualche casalinga molto doviziosa tagliava con un coltello questi rettangoli di carta da giornale per poi accomodarli al “cesso”. Scusate se continuo a chiamarlo in questo modo ma un bagno vero e proprio io ho cominciato ad averlo in casa a metà degli anni 50’ prima c’erano, alla fine dei balconi delle case di ringhiera, questi stanzini con un buco nel mezzo di un gradino che serviva all’uopo, quelli più moderni avevano già la famosa turca ma il bagno, come lo conosciamo oggi, era di la a da venire. Nelle campagne vi erano per lo più cessi di “melgazzi” sopra la fossa del rudo (letame), li però il giornale lo portavano da casa. Per chi la faceva allo spirar dei venti gli si raccomandava di non usare le foglie del fico particolarmente abrasive, infatti negli anni successivi una leggenda metropolitana indicava il succo (latte) delle foglie del fico come abbronzante procurando ustioni anche gravi a coloro che intendevano usare questo tipo di metodo. Negli anni poi qualcuno si accorse che il piombo e il petrolio che impregnavano le lettere di stampa creavano problemi alla zona perianale, procurando emorroidi e in qualche caso le famigerate ragadi. Ma a risolvere questi fastidiosi problemi, a metà degli anni 50’ ecco spuntare un prodotto che in breve ebbe, per fortuna, larga diffusione in tutte le case: la carta igienica. Ma ho fatto a tempo anche a provare un prodotto che si chiamava “vellutina” ed erano semplicemente dei rettangoli di carta 10x15 un poco più spessa della carta velina e di colore nocciola. Apparvero così anche degli accessori da bagno compreso il portarotoli. Ed ecco scaturire una curiosa questione, oggetto di studi sociologici e dibattiti di costume (in particolar modo nei paesi anglosassoni), legata all'utilizzo della carta igienica ovvero quella dell'orientamento del rotolo posto nel portarotolo. A destra della seduta o a sinistra, e qui hanno avuto la peggio i mancini, più comodo a destra, ma poi il rotolo come deve essere inserito nel porta rotoli. Considerando un portarotolo il cui asse orizzontale sia parallelo al muro, la carta può pendere sopra e davanti al rotolo stesso, posizionamento

L’EVOLUZIONE DELLA CARTA IGIENICA: Dopo l’evoluzione del bianchino, scritto tempo fa, un amico mi ha involontariamente suggerito questo argomento ovvero l’evoluzione della carta igienica. Amarcord ovvero mi ricordo che da bambino presso i “cessi” esisteva un chiodo, ma anche un gancio attaccato da qualche parte, dove erano appesi foglietti di giornale. Mi ricordo pure che qualche casalinga molto doviziosa tagliava con un coltello questi rettangoli di carta da giornale per poi accomodarli al “cesso”. Scusate se continuo a chiamarlo in questo modo ma un bagno vero e proprio io ho cominciato ad averlo in casa a metà degli anni 50’ prima c’erano, alla fine dei balconi delle case di ringhiera, questi stanzini con un buco nel mezzo di un gradino che serviva all’uopo, quelli più moderni avevano già la famosa turca ma il bagno, come lo conosciamo oggi, era di la a da venire. Nelle campagne vi erano per lo più cessi di “melgazzi” sopra la fossa del rudo (letame), li però il giornale lo portavano da casa. Per chi la faceva allo spirar dei venti gli si raccomandava di non usare le foglie del fico particolarmente abrasive, infatti negli anni successivi una leggenda metropolitana indicava il succo (latte) delle foglie del fico come abbronzante procurando ustioni anche gravi a coloro che intendevano usare questo tipo di metodo. Negli anni poi qualcuno si accorse che il piombo e il petrolio che impregnavano le lettere di stampa creavano problemi alla zona perianale, procurando emorroidi e in qualche caso le famigerate ragadi. Ma a risolvere questi fastidiosi problemi, a metà degli anni 50’ ecco spuntare un prodotto che in breve ebbe, per fortuna, larga diffusione in tutte le case: la carta igienica. Ma ho fatto a tempo anche a provare un prodotto che si chiamava “vellutina” ed erano semplicemente dei rettangoli di carta 10x15 un poco più spessa della carta velina e di colore nocciola. Apparvero così anche degli accessori da bagno compreso il portarotoli. Ed ecco scaturire una curiosa questione, oggetto di studi sociologici e dibattiti di costume (in particolar modo nei paesi anglosassoni), legata all'utilizzo della carta igienica ovvero quella dell'orientamento del rotolo posto nel portarotolo. A destra della seduta o a sinistra, e qui hanno avuto la peggio i mancini, più comodo a destra, ma poi il rotolo come deve essere inserito nel porta rotoli. Considerando un portarotolo il cui asse orizzontale sia parallelo al muro, la carta può pendere sopra e davanti al rotolo stesso, posizionamento "davanti", oppure sotto e dietro ad esso, posizionamento "di dietro" ai posteri l’ardua sentenza, questioni che lasceranno un segno nella storia dell'umanità. Chi non ricorda la pubblicità della carta Scottex (annji 80’) “Dieci piani di morbidezza” c’era poi qualcuno che saliva sul terrazzo del condominio e lanciava giù i rotoli per verificare se era vero quello che diceva la televisione dando stura, alle riunioni di condominio, delle proteste del solito che, con la schiuma alla bocca, chiedeva chi era il cretino che lanciava carta igienica sul suo balcone. Il buon “Lasaret” l’indimenticabile Mario Salvaneschi, che mi onorava della sua amicizia, su cui ci sarebbe da aprire un serio dibattito ma lo faremo in altra sede, raccontava questa storiella: La Maestra a Pierino:”fatemi un esempio dell’avverbio probabilmente” e Pierino “Vedendo mio nonno che attraversa il cortile con sotto braccio una copia del TIME (si legge taim) e ben sapendo che mio nonno con conosce l’inglese, probabilmente andava a c……e…..al cesso”. Questa volta spero di avervi fatto almeno sorridere, vi saluto brava gente, sempre per bontà vostra. GIU.BA.

D.D.L.

DDL = Disegno di legge: Ho seguito solo marginalmente le vicende legate al DDL ZAN. A mio avviso esistono già leggi che garantiscono diritti e doveri a proposito. Ma dopo gli atteggiamenti che si sono visti da parte dei parlamentari, una domanda mi sorge spontanea: ma quanti di loro, favorevoli e/o contrari hanno letto il testo di questo DDL? Quanti hanno votato di coscienza o hanno solo seguito gli ordini di squadra, di partito o le indicazioni dei capigruppo/segretari/presidenti senza minimamente sapere che cosa conteneva il disegno di legge, almeno in linea generale, almeno qualche articolo, ad esempio cosa dice l’art.10 e il riferimento all’art 604 bis e ter? Io ho delle esperienze personali a proposito, ho assistito a vicende che fin da ragazzo mi lasciarono basito, oggi si chiamerebbero di bullismo. Faccio due esempi. 1) Bus urbano a Voghera da rione Pombio alla stazione ferroviaria dove i miei gestivano il bar Roma, dovrebbero essere stati i primi anni 50’ avrei dovuto avere 9/10 anni. Il bus arriva in piazza della posta ovvero piazza Cesare Battisti, le porte si aprono e sale un personaggio, uno di quelli che a Voghera avevano un soprannome con desinenza al femminile, Giorgina, Franchina, Renzina, non mi ricordo più chi fosse dei tre. Il personaggio salì e si aggrappò al corrimano ma nel frattempo l’autista del bus fermò il mezzo, raggiunse questa persone e prendendolo per un braccio cominciò ad inveire “Non voglio culattoni sul mio bus” e strattonandolo lo obbligò a scendere. Nessuno dei passeggeri fece un minimo gesto anzi qualcuno faceva dei risolini beffardi, altri guardavano altrove con indifferenza, fingendo di non curarsi di quello che stava accadendo. Io ero esterrefatto, anche perché questa persona esibiva il biglietto, ma il “solerte” automedonte (parola desueta, ma era desueto pure lui) se ne tornò al suo posto gongolante, persuaso e soddisfatto di aver fatto il suo dovere e salvato la pubblica decenza di tutto il popolo presente sul suo bus. 2) Altro episodio, dove facevo finta di fare l’animatore in un villaggio turistico residenziale nei nostri Appennini, (vedi il mio pezzo Piombo rovente), un giorno d’estate arrivarono due personaggi, uno noto medico e l’altro pare fosse un ex maestro di scuola. La notizia fece sobbalzare le signore che trascorrevano le giornate fra chiacchiere uncinetto e gossip, ma non solo loro, anche perché era chiaro che i due personaggi vivessero more-uxorio, una coppia di fatto insomma, bisogna ricordare che eravamo negli anni 85/90’. Due signori rispettabili e rispettosi. Però……però, per alcuni giorni i villeggianti mantenevano rapporti tiepidi per non dire freddi, saluti di cortesia e non di più, poi un giorno qualcuno ebbe bisogno urgentemente di un dottore e con una punta di imbarazzo dovettero andare a suonare il campanello della loro porta per chiedere aiuto al medico, il quale, senza por tempo frammezzo, si precipitò in soccorso. E seguì poi il “malato” anche nei giorni successivi senza mai chiedere nulla. Sentite…., per farla breve, la comunità del villaggio dopo poche settimane non iniziava più nessuna manifestazione, evento o che dir si voglia, gara di briscola tennis o bocce, senza interpellare questi due personaggi, anzi di più, l’altro che era stato forse maestro di scuola e organizzò un dopo scuola per tutti i bimbi che dovevano fare i compiti delle vacanze. Cosa c’entra tutto questo con il DDL, forse nulla, ma certamente bisogna anche meditare su certi atteggiamenti a “prescindere” onde evitare sempre che diritti e doveri vengano elusi. Come tutti sapete sono “venale” e vulnerabile al fascino femminile anche se “maschio non più praticante” ma certi atteggiamenti ostruzionisti mi danno fastidio proprio perché sono a “prescindere”. Un saluto brava gente. GIU.BA.

GREEN PASS

Green pass: Ti sei fatto 365 giorni di lockdown tappato in casa perché eri terrorizzato, e se uscivi con il cane, quando rientravi ti spogliavi sul pianerottolo, ti levavi le scarpe e ti facevi la doccia con l’Amuchina. La sera, alle 21,59 correvi più veloce di Speedy Gonzales, di Willy il Coyote e di Cenerentola messi insieme. Per più di un anno hai indossato la mascherina e i guanti anche se eri solo, anche in macchina. Sei schedato dalla nascita al Comune, all’Ufficio delle Imposte, in Chiesa. Sei stato battezzato e vaccinato senza poter scegliere; hai fatto la scuola dell’OBBLIGO. Quando sei partito per qualche viaggio esotico, hai fatto decine di vaccini senza pensare che ti inoculassero veleni e segnalato la tua presenza al sito “dove sono nel mondo”. Ingurgiti tonnellate di farmaci senza neanche leggere i bugiardini che fino all’anno scorso non sapevi neanche cosa fossero. Sei schedato anche alla motorizzazione. Hai il Telepass, lo Spid, l'EasyPark, la PEC, la tessera sanitaria, il conto corrente online, un centinaio di tessere di supermercati, profumerie, negozi di abbigliamento, librerie. Hai fatto il cashback e la lotteria degli scontrini; fai acquisti su Amazon; hai la carta d’identità, la patente, il passaporto, il codice fiscale, le carte di credito, il bancomat. Sei iscritto a FaceBook Instagram Smule Twitter e comunichi a tutti dove sei, cosa pensi e cosa mangi, e tutti sanno di che colore sono le mutande che indossi...Se hai il navigatore in auto qualcuno ti comunica dove sei e che ristorante hai appena superato e quello che troverai appena dopo. A militare (per chi lo ha fatto) ti hanno fatto una vaccinazione esavalente e nessuno ti ha mai chiesto se volevi o non volevi farla. Se ti fai di coca ricordati che prima di arrivare al tuo naso a viaggiato per mezzo mondo su per il buco del culo di un colombiano, ne tantomeno ti chiedi che cosa contiene la pillola di simil-viagra che hai comprato on line da un falso farmacista bulgaro. E IL GREENPASS TI LIMITA LA LIBERTÀ??? Ma va a fare in culo và!!

GIU.BA. con l’amichevole collaborazione di Pier Luigi R.

UN TE’ SENZA DESERTO: Il tè senza teina, il caffè senza caffeina, il latte senza lattosio,come pure i formaggi, le clementine senza semi come pure l’uva apirena senza gandolini e per finire l’anguria senza semi neri, mi dicono che è un ibrido sterile, un mulo del regno vegetale insomma (non bisogna dire geneticamente modificato altrimenti scoppia la polemica OMG). Ma vuoi mettere quando si faceva la gara a chi sputava più lontano il semino dell’anguria e per completare poi l’opera la gara a chi faceva più lontano anche il risultato idrico della scorpacciata del rosso cocomero. Ci sono poi pasta e pane senza glutine, le bibite senza zucchero, i dolcificanti, rido ancora ricordando la scena di colui il quale dopo aver mangiato tre primi due secondi ed un plinto di tiramisù chiedeva una bustina di dolcificante per il caffè. Poi viene anche il sesso virtuale o con vari strumenti del tutto simili alla bisogna ma senza l’apporto umano. Mio zio diceva :”ma dove andremo a finire???Bha!!!”. Per motivi legati ad una forma intestinale da un mese a questa parte sono stato invitato “caldamente” a attenermi ad una dieta che prevede che alla sera non assuma carboidrati ma solo verdure e carne bianca. Sullo scaffale di un noto market cittadino ho visto degli amburgher vegani: quinoa ( che cose è costei?) con spinaci e carote e non ricordo più con che diavolo altro. A casa li ho fatti cuocere come se fossero amburgher “normali”, speravo avessero il gusto di una frittata di verdure, ma senza uova ovviamente, ebbene non sono riuscito ad arrivare alla fine del primo dei due. Anni fa mi avevano indicato il tofu come grande novità che avrebbe dovuto essere una sorta di formaggio vegano, anche in questo caso non riuscii ad arrivare alla fine. Sembrava polistirolo, “ma dovevi impanarlo e farlo friggere”, e allora mangiavo la panatura fritta non il tofu. Ebbene resto fermamente onnivoro e carnivoro anche se qualcuno mi guarderà con sufficienza a me piace ancora “la ciccia” come dice il famoso macellaio toscano Dario Cecchini e non solo in quel senso. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

UN TE’ SENZA DESERTO: Il tè senza teina, il caffè senza caffeina, il latte senza lattosio,come pure i formaggi, le clementine senza semi come pure l’uva apirena senza gandolini e per finire l’anguria senza semi neri, mi dicono che è un ibrido sterile, un mulo del regno vegetale insomma (non bisogna dire geneticamente modificato altrimenti scoppia la polemica OMG). Ma vuoi mettere quando si faceva la gara a chi sputava più lontano il semino dell’anguria e per completare poi l’opera la gara a chi faceva più lontano anche il risultato idrico della scorpacciata del rosso cocomero. Ci sono poi pasta e pane senza glutine, le bibite senza zucchero, i dolcificanti, rido ancora ricordando la scena di colui il quale dopo aver mangiato tre primi due secondi ed un plinto di tiramisù chiedeva una bustina di dolcificante per il caffè. Poi viene anche il sesso virtuale o con vari strumenti del tutto simili alla bisogna ma senza l’apporto umano. Mio zio diceva :”ma dove andremo a finire???Bha!!!”. Per motivi legati ad una forma intestinale da un mese a questa parte sono stato invitato “caldamente” a attenermi ad una dieta che prevede che alla sera non assuma carboidrati ma solo verdure e carne bianca. Sullo scaffale di un noto market cittadino ho visto degli amburgher vegani: quinoa ( che cose è costei?) con spinaci e carote e non ricordo più con che diavolo altro. A casa li ho fatti cuocere come se fossero amburgher “normali”, speravo avessero il gusto di una frittata di verdure, ma senza uova ovviamente, ebbene non sono riuscito ad arrivare alla fine del primo dei due. Anni fa mi avevano indicato il tofu come grande novità che avrebbe dovuto essere una sorta di formaggio vegano, anche in questo caso non riuscii ad arrivare alla fine. Sembrava polistirolo, “ma dovevi impanarlo e farlo friggere”, e allora mangiavo la panatura fritta non il tofu. Ebbene resto fermamente onnivoro e carnivoro anche se qualcuno mi guarderà con sufficienza a me piace ancora “la ciccia” come dice il famoso macellaio toscano Dario Cecchini e non solo in quel senso. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

Il cappotto: Quelli della mia generazione si ricorderanno del bellissimo film di Alberto Lattuada “Il cappotto” interpretato da Renato Rascel ed ambientato in una Pavia grigia e nebbiosa. Un film tra il grottesco ed il patetico con quella scena surreale del dialogo in burocratese: “Mi chiami il cancelliere” “E’ morto” “Come morto?” “Morto, morto” “Lo sostituisca!!” e dove il povero Carmine De Carmine (Rascel), che aveva come unico sogno della vita quello di avere un cappotto nuovo. Finalmente il sogno si avvera, ha un cappotto nuovo, ma tornando a casa una notte, proprio sul Ponte Coperto, viene derubato del cappotto e muore dal dolore e dal freddo. Ho in mente una mia foto dove, da sotto un cappotto doppio petto spigato siberiano, (Fantozzi docet) spuntano due gambette magre e coperte solo un paio di calzettoni. Pantaloni corti e cappotto. Allora il cappotto era una tradizione di famiglia, veniva tramandato di padre in figlio, da fratello maggiore a quello minore, da zio a nipote (questo è accaduto a me). I cappotti erano un patrimonio famigliare, venivano rivoltati e rimodellati, i sarti di allora facevano veri e propri miracoli disfando e rimontando il cappotto in maniera che le parti usurate passassero all’interno, di fatto ridando nuova vita a chi di vita ne aveva già avuta più di una. Nei ristoranti e nelle osterie non era raro vedere esposti cartelli con scritto “tenete d’occhio i vostri cappotti”. Era il pezzo più prezioso del nostro guardaroba, il paltò, e quando si avvicinava l’inverno le nostre mamme lo tiravano fuori dalla naftalina e lo mettevano all’aria per fargli perdere quel profumo pungente che però di fatto ci accompagnava per tutto l’inverno. Infatti, durante la brutta stagione, nei locali affollati, cinema, bar, il profumo, o l’odore se vogliamo, della naftalina lo faceva da padrone. Un giorno, oramai sposato e abitante già a Casteggio, stavo salendo di corsa le scale della casa di una parente, quando nel fare la curva di un pianerottolo, il corrimano mi si infilò in una tasca del cappotto producendo uno strappo incredibile. Mi sentii svenire, anche perché allora quello era l’unico cappotto che avevo e che faceva parte della mia dote matrimoniale, forse anche il mio primo vero cappotto nuovo. Mi vennero le lacrime agli occhi. Per porre rimedio a quel grosso guaio fui indirizzato presso un convento di suore a Voghera dove, mi avevano detto, facevano i rammendi invisibili. E così fu. Le brave suorine presero cura del mio paltò, recuperarono i fili all’interno del capo e poi con una pazienza infinita, oserei dire certosina, filo dopo filo fecero sparire lo strappo ridando al cappotto il suo aspetto originale. Oggi di cappotto ne ho sempre ancora solo uno, blu, da cerimonia e per la verità questo inverno passato non ho mai avuto occasione di indossarlo, sostituito oramai da tempo da giubboni e giacconi, come si dice oggi molto “casual”, però ho ancora in mente quella vecchia foto in bianco nero con il mio cappotto e le due gambette che spuntavano da sotto. Vi saluto brava gente. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

Il cappotto: Quelli della mia generazione si ricorderanno del bellissimo film di Alberto Lattuada “Il cappotto” interpretato da Renato Rascel ed ambientato in una Pavia grigia e nebbiosa. Un film tra il grottesco ed il patetico con quella scena surreale del dialogo in burocratese: “Mi chiami il cancelliere” “E’ morto” “Come morto?” “Morto, morto” “Lo sostituisca!!” e dove il povero Carmine De Carmine (Rascel), che aveva come unico sogno della vita quello di avere un cappotto nuovo. Finalmente il sogno si avvera, ha un cappotto nuovo, ma tornando a casa una notte, proprio sul Ponte Coperto, viene derubato del cappotto e muore dal dolore e dal freddo. Ho in mente una mia foto dove, da sotto un cappotto doppio petto spigato siberiano, (Fantozzi docet) spuntano due gambette magre e coperte solo un paio di calzettoni. Pantaloni corti e cappotto. Allora il cappotto era una tradizione di famiglia, veniva tramandato di padre in figlio, da fratello maggiore a quello minore, da zio a nipote (questo è accaduto a me). I cappotti erano un patrimonio famigliare, venivano rivoltati e rimodellati, i sarti di allora facevano veri e propri miracoli disfando e rimontando il cappotto in maniera che le parti usurate passassero all’interno, di fatto ridando nuova vita a chi di vita ne aveva già avuta più di una. Nei ristoranti e nelle osterie non era raro vedere esposti cartelli con scritto “tenete d’occhio i vostri cappotti”. Era il pezzo più prezioso del nostro guardaroba, il paltò, e quando si avvicinava l’inverno le nostre mamme lo tiravano fuori dalla naftalina e lo mettevano all’aria per fargli perdere quel profumo pungente che però di fatto ci accompagnava per tutto l’inverno. Infatti, durante la brutta stagione, nei locali affollati, cinema, bar, il profumo, o l’odore se vogliamo, della naftalina lo faceva da padrone. Un giorno, oramai sposato e abitante già a Casteggio, stavo salendo di corsa le scale della casa di una parente, quando nel fare la curva di un pianerottolo, il corrimano mi si infilò in una tasca del cappotto producendo uno strappo incredibile. Mi sentii svenire, anche perché allora quello era l’unico cappotto che avevo e che faceva parte della mia dote matrimoniale, forse anche il mio primo vero cappotto nuovo. Mi vennero le lacrime agli occhi. Per porre rimedio a quel grosso guaio fui indirizzato presso un convento di suore a Voghera dove, mi avevano detto, facevano i rammendi invisibili. E così fu. Le brave suorine presero cura del mio paltò, recuperarono i fili all’interno del capo e poi con una pazienza infinita, oserei dire certosina, filo dopo filo fecero sparire lo strappo ridando al cappotto il suo aspetto originale. Oggi di cappotto ne ho sempre ancora solo uno, blu, da cerimonia e per la verità questo inverno passato non ho mai avuto occasione di indossarlo, sostituito oramai da tempo da giubboni e giacconi, come si dice oggi molto “casual”, però ho ancora in mente quella vecchia foto in bianco nero con il mio cappotto e le due gambette che spuntavano da sotto. Vi saluto brava gente. Sempre per bontà vostra. GIU.BA.

LA BIRO. Il maestro Enzo Jannacci scrisse alcune canzoni che esulavano dal solito repertorio sarcastico milanese/comico per addentrarsi in argomenti più socio politici vedi “Vincenzina e la fabbrica” oppure quella che io impropriamente chiamo “la biro” ma che si chiamava in realtà “al me ndiriss”  “Non ce l'ho la biro Non c'ho la biro  Vabbè non c'ho la biro e allora? Oh, scusi E lo so anche io che è dura stare in fila L'ho fatta anche io la fila senza la biro” Nella canzone questa biro, che serviva per scrivere su di un documento un vecchio indirizzo di gioventù, scatenava nell’autore una serie di ricordi di ragazzo nelle periferie milanesi. A me invece della biro, nel mettere a posto alcuni vecchi documenti, semi dimenticati in fondo ad una scatola, anche essi riesumati grazie all’intervento di Gennaro l’imbianchino, mi sono trovato fra le mani il mio “Foglio di congedo illimitato provvisorio”   che lasciava presagire un lungo periodo prima della chiamata vera e propria. Ed invece verso la fine di quel mese di giugno arrivò la chiamata della allora leva obbligatoria. La mitica e famosa cartolina rosa. E così iniziò la mia avventura militare. Scuola Allievi Comandanti di Squadra a Spoleto. Ma al distretto di Pavia incontrai un altro allievo A.C.S. tale Cargnoni da Vigevano ed insieme partimmo alla volta di Spoleto. Ma mentre mi rigiro fra le mani questo foglietto oramai sgualcito mi viene da pensare “che fine avrà fatto Cargnoni, dove sarà, che cosa gli avrà riservato la vita?”. Qualche tempo fa ricevetti una telefonata di un altro commilitone con il quale avevo poi trascorso altri momenti di vita militare a Pinerolo, il quale con grande pazienza aveva rintracciato tutti coloro della nostra squadra, circa 10 ragazzi, con l’intenzione di riallacciare i rapporti sbiaditi nel tempo. Ora che siamo tutti in pensione e che la nostra vita a assunto un verso di maggiore “tranquillità” vorrebbe che questi legami di amicizia che ci avevano accomunati, tornassero a essere riallacciati. A me fa un poco di tristezza, anche se sarò felice di ritrovarli, perché quello di cui ho maggior timore è scoprire come siamo invecchiati. So per certo che ad uno di noi è già mancato il figlio e questo è la maggiore iattura che può capitare ad un padre, sopravvivere ai figli, quindi la domanda che mi faccio e che mi farò è:” Come siamo invecchiati, bene o male, abbiamo ancora lo spirito di quegli anni o l’ingiuria del tempo ci ha frustrati non solo nel fisico… ah saperlo?” Tutto questo sta in quel piccolo foglio sgualcito che ho trovato in fondo ad una scatola. Sempre per bontà vostra. GIU.BA. P.S. tra l'altro la data di nascita ho scopetro che è sbagliata: 29/09 e non 29/11. non credo che importi più di tanto ora.

LA BIRO. Il maestro Enzo Jannacci scrisse alcune canzoni che esulavano dal solito repertorio sarcastico milanese/comico per addentrarsi in argomenti più socio politici vedi “Vincenzina e la fabbrica” oppure quella che io impropriamente chiamo “la biro” ma che si chiamava in realtà “al me ndiriss” “Non ce l'ho la biro Non c'ho la biro Vabbè non c'ho la biro e allora? Oh, scusi E lo so anche io che è dura stare in fila L'ho fatta anche io la fila senza la biro” Nella canzone questa biro, che serviva per scrivere su di un documento un vecchio indirizzo di gioventù, scatenava nell’autore una serie di ricordi di ragazzo nelle periferie milanesi. A me invece della biro, nel mettere a posto alcuni vecchi documenti, semi dimenticati in fondo ad una scatola, anche essi riesumati grazie all’intervento di Gennaro l’imbianchino, mi sono trovato fra le mani il mio “Foglio di congedo illimitato provvisorio” che lasciava presagire un lungo periodo prima della chiamata vera e propria. Ed invece verso la fine di quel mese di giugno arrivò la chiamata della allora leva obbligatoria. La mitica e famosa cartolina rosa. E così iniziò la mia avventura militare. Scuola Allievi Comandanti di Squadra a Spoleto. Ma al distretto di Pavia incontrai un altro allievo A.C.S. tale Cargnoni da Vigevano ed insieme partimmo alla volta di Spoleto. Ma mentre mi rigiro fra le mani questo foglietto oramai sgualcito mi viene da pensare “che fine avrà fatto Cargnoni, dove sarà, che cosa gli avrà riservato la vita?”. Qualche tempo fa ricevetti una telefonata di un altro commilitone con il quale avevo poi trascorso altri momenti di vita militare a Pinerolo, il quale con grande pazienza aveva rintracciato tutti coloro della nostra squadra, circa 10 ragazzi, con l’intenzione di riallacciare i rapporti sbiaditi nel tempo. Ora che siamo tutti in pensione e che la nostra vita a assunto un verso di maggiore “tranquillità” vorrebbe che questi legami di amicizia che ci avevano accomunati, tornassero a essere riallacciati. A me fa un poco di tristezza, anche se sarò felice di ritrovarli, perché quello di cui ho maggior timore è scoprire come siamo invecchiati. So per certo che ad uno di noi è già mancato il figlio e questo è la maggiore iattura che può capitare ad un padre, sopravvivere ai figli, quindi la domanda che mi faccio e che mi farò è:” Come siamo invecchiati, bene o male, abbiamo ancora lo spirito di quegli anni o l’ingiuria del tempo ci ha frustrati non solo nel fisico… ah saperlo?” Tutto questo sta in quel piccolo foglio sgualcito che ho trovato in fondo ad una scatola. Sempre per bontà vostra. GIU.BA. P.S. tra l'altro la data di nascita ho scopetro che è sbagliata: 29/09 e non 29/11. non credo che importi più di tanto ora.

FOREVER YOUNG: Questa la voglio dedicare a tutti quelli che quando li incontri ti dicono “Eh….. si diventa vecchi” e ai quali io rispondo “E per fortuna, pensa a quelli che non lo sono diventati”. Il buono della presenza in casa degli imbianchini sta nel fatto, a parte il baillame che stiamo ancora subendo ora, che nel rimettere a posto tutto quello che abbiamo dovuto spostare per tinteggiare la casa, si trovano cose che non pensavamo neppure più di avere. E’ anche l’occasione di disfarsi di cose inutili, vecchi inviti, auguri di Natale di dieci anni fa, biglietti da visita, indirizzi scritti su un foglietto, recapiti dei vicini di ombrellone quelli “non perdiamoci di vista però”, ma scopri anche cose che se non ti fanno venire il groppo in gola almeno ti emozionano. Una vecchia lettera che mio fratello scrisse ai miei genitori nel 1978 al suo primo incarico all’estero, l’acronimo sulle spalline della Scuola Militare e poi due biglietti di banca, che non oso manipolare più di tanto, da cinque e cento lire dell’immediato dopoguerra. Io quei biglietti di banca li ho usati, li usavo per andare a comprare il latte, 5lire per un bambino erano un tesoretto, per non parlare delle cento lire. Le mille lire erano un lenzuolo, se questi due biglietti di banca fossero ben tenuti avrebbero potuto valere qualche euro ma purtroppo sono biglietti vissuti e poi dimenticati in un portafoglio in fondo ad un cassetto e solo grazie all’intervento degli imbianchini li abbiamo riesumati. Quindi quando qualcuno mi chiede l’età posso sempre dire che non mi ricordo bene, devo controllare la carta di identità, ma posso dire che ho usato le cinque lire di carta per andare a prendere il latte. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

FOREVER YOUNG: Questa la voglio dedicare a tutti quelli che quando li incontri ti dicono “Eh….. si diventa vecchi” e ai quali io rispondo “E per fortuna, pensa a quelli che non lo sono diventati”. Il buono della presenza in casa degli imbianchini sta nel fatto, a parte il baillame che stiamo ancora subendo ora, che nel rimettere a posto tutto quello che abbiamo dovuto spostare per tinteggiare la casa, si trovano cose che non pensavamo neppure più di avere. E’ anche l’occasione di disfarsi di cose inutili, vecchi inviti, auguri di Natale di dieci anni fa, biglietti da visita, indirizzi scritti su un foglietto, recapiti dei vicini di ombrellone quelli “non perdiamoci di vista però”, ma scopri anche cose che se non ti fanno venire il groppo in gola almeno ti emozionano. Una vecchia lettera che mio fratello scrisse ai miei genitori nel 1978 al suo primo incarico all’estero, l’acronimo sulle spalline della Scuola Militare e poi due biglietti di banca, che non oso manipolare più di tanto, da cinque e cento lire dell’immediato dopoguerra. Io quei biglietti di banca li ho usati, li usavo per andare a comprare il latte, 5lire per un bambino erano un tesoretto, per non parlare delle cento lire. Le mille lire erano un lenzuolo, se questi due biglietti di banca fossero ben tenuti avrebbero potuto valere qualche euro ma purtroppo sono biglietti vissuti e poi dimenticati in un portafoglio in fondo ad un cassetto e solo grazie all’intervento degli imbianchini li abbiamo riesumati. Quindi quando qualcuno mi chiede l’età posso sempre dire che non mi ricordo bene, devo controllare la carta di identità, ma posso dire che ho usato le cinque lire di carta per andare a prendere il latte. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

PIOMBO ROVENTE: Lo chiamavamo “piombo rovente” ed era un edicolante itinerante di Cabella Ligure il quale veniva tutti i giorni fin lassù in montagna a portare i quotidiani ai villeggianti del villaggio turistico residenziale e a tutti gli alberghi dell’alta valle Staffora ai confini con l’Emilia e il Piemonte. Io allora molto cialtronescamente gestivo la piccola discoteca e avviavo i due locali a monte e a valle della seggiovia. Creavo eventi e facevo da animatore: la miss dell’estate, la serata del liscio o quella della musica 60/80 con l’amico Perry alla consolle, o il famoso gruppo musicale Los Caballeros, ma anche Elio e le Storie tese nel loro primo concerto pubblico ma anche un complesso rock “I Cacao” che faceva da supporter a Gianna Nannini, tutti professionisti di buon livello, anche qualche cabarettista come Giorgio Porcaro e Gianni Magni. Organizzavamo anche una corsa non competitiva ma dovetti desistere perché alla fine erano più gli addetti al percorso che i concorrenti. Ma l’appuntamento fisso di ogni mattina era con “piombo rovente”, appena varcava il passo del Giovà cominciava a suonare il clacson della sua Fiat 600 e tutti al villaggio si preparavano con la moneta in mano a raggiungere la vetturetta. Un particolare, questa vettura aveva solo il posto del guidatore, infatti un’asse di legno a mo’ di tavolo occupava il resto della macchina. Il signor “piombo rovente” (non ho mai saputo come si chiamava), seduto al posto di guida, raggiungeva dalla sua postazione quotidiani e riviste e distribuiva dal finestrino i giornali. La popolazione del villaggio era composta prevalentemente da liberi professionisti, dirigenti, commercianti che si erano comprati casa per le vacanze o al limite lo avevano affittata. Le signore, mogli, amiche, fidanzate ecc. ecc. si davano un certo tono, non dico la puzza sotto il naso, anche brave signore ma se la tiravano un po’. Io aspettavo che tutte o buona parte di esse si radunassero attorno alla macchina edicola e io arrivavo sgomitando e gridando “Per cortesia mi dia Le Ore,OV e Lotta Continua”. L’ultimo era un giornale dell’allora estrema sinistra extraparlamentare, gli altri due erano due giornalacci pornografici che però allora andavano per la maggiore tra gli amanti del genere. Le prime volte le signore mostravano stupore e raccapriccio per non dire orrore e per alcune volte la gag andò avanti, ma poi capendo che io scherzavo non mi prendevano più sul serio. Allora io nascostamente mi misi d’accordo con l’edicolante il quale mi procurò le tre riviste che io tra lo stupore e l’orrore delle signore, andai a ritirare. In quella occasioni scoprii che il nostro “piombo rovente”, che non avevo mai visto scendere dalla macchina, era disabile avendo problemi di deabulazione e quello era il modo estivo per dare un senso alla sua giornata che diversamente avrebbe passato seduto su di una sedia in edicola oppure al bar del paese. Un piccolo mondo antico, altri tempi e altri luoghi e quei giornali sono oramai giustamente scomparsi, Sempre per bontà vostra GIU.BA.

PIOMBO ROVENTE: Lo chiamavamo “piombo rovente” ed era un edicolante itinerante di Cabella Ligure il quale veniva tutti i giorni fin lassù in montagna a portare i quotidiani ai villeggianti del villaggio turistico residenziale e a tutti gli alberghi dell’alta valle Staffora ai confini con l’Emilia e il Piemonte. Io allora molto cialtronescamente gestivo la piccola discoteca e avviavo i due locali a monte e a valle della seggiovia. Creavo eventi e facevo da animatore: la miss dell’estate, la serata del liscio o quella della musica 60/80 con l’amico Perry alla consolle, o il famoso gruppo musicale Los Caballeros, ma anche Elio e le Storie tese nel loro primo concerto pubblico ma anche un complesso rock “I Cacao” che faceva da supporter a Gianna Nannini, tutti professionisti di buon livello, anche qualche cabarettista come Giorgio Porcaro e Gianni Magni. Organizzavamo anche una corsa non competitiva ma dovetti desistere perché alla fine erano più gli addetti al percorso che i concorrenti. Ma l’appuntamento fisso di ogni mattina era con “piombo rovente”, appena varcava il passo del Giovà cominciava a suonare il clacson della sua Fiat 600 e tutti al villaggio si preparavano con la moneta in mano a raggiungere la vetturetta. Un particolare, questa vettura aveva solo il posto del guidatore, infatti un’asse di legno a mo’ di tavolo occupava il resto della macchina. Il signor “piombo rovente” (non ho mai saputo come si chiamava), seduto al posto di guida, raggiungeva dalla sua postazione quotidiani e riviste e distribuiva dal finestrino i giornali. La popolazione del villaggio era composta prevalentemente da liberi professionisti, dirigenti, commercianti che si erano comprati casa per le vacanze o al limite lo avevano affittata. Le signore, mogli, amiche, fidanzate ecc. ecc. si davano un certo tono, non dico la puzza sotto il naso, anche brave signore ma se la tiravano un po’. Io aspettavo che tutte o buona parte di esse si radunassero attorno alla macchina edicola e io arrivavo sgomitando e gridando “Per cortesia mi dia Le Ore,OV e Lotta Continua”. L’ultimo era un giornale dell’allora estrema sinistra extraparlamentare, gli altri due erano due giornalacci pornografici che però allora andavano per la maggiore tra gli amanti del genere. Le prime volte le signore mostravano stupore e raccapriccio per non dire orrore e per alcune volte la gag andò avanti, ma poi capendo che io scherzavo non mi prendevano più sul serio. Allora io nascostamente mi misi d’accordo con l’edicolante il quale mi procurò le tre riviste che io tra lo stupore e l’orrore delle signore, andai a ritirare. In quella occasioni scoprii che il nostro “piombo rovente”, che non avevo mai visto scendere dalla macchina, era disabile avendo problemi di deabulazione e quello era il modo estivo per dare un senso alla sua giornata che diversamente avrebbe passato seduto su di una sedia in edicola oppure al bar del paese. Un piccolo mondo antico, altri tempi e altri luoghi e quei giornali sono oramai giustamente scomparsi, Sempre per bontà vostra GIU.BA.

Fai doppio clic per aggiungere il tuo testo personale.

LA NEBBIA: E la nebbia che bellessa, la va giò per i pulmon, Giovanni D’Anzi. L’altra mattina mi son svegliato e ho trovato …..la nebbia. Era tempo che non la vedevo eppure è stata la mia compagna di vita per moltissimi anni. Le belle nebbie autunnali e invernali, la galaverna, i pomeriggi milanesi dove alle 5 della sera il mondo scompariva e restavano solo quegli aloni gialli dei lampioni  o delle vetrine dei negozi. E qui torniamo al mio recente discorso sul silenzio, la nebbia è amica del silenzio, tutto diventa ovattato, silenzioso. Portai la allora mia fidanzata a mangiare il pesce in riviera, ma appena fuori dal Turchino, sulla via del ritorno, ci trovammo inghiottiti da uno di quei nebbioni da tagliare con il coltello, come si diceva, quindi testa fuori dal finestrino per vedere la riga di mezzaria della strada. Una sera partii da Voghera per tornare a casa a Casteggio e il nebbione mi impediva di vedere la strada, era una nebbia cattiva, cupa, angosciante fino poi ad accorgermi che il riscaldamento del parabrezza era spento e quella che vedevo non era la nebbia ma il vetro appannato. Il mio mentore Paolo Conte la nebbia la canta così: È grigia la strada ed è grigia la luce. E Broni, Casteggio, Voghera son grigie anche loro. C'è solo un semaforo rosso quassù. Nel cuore, nel cuor di Stradella. Che è quella città dove tutte le armoniche di questa pianura. Son nate e qualcuno le suona così. Ma anche nelle poesie di scolastica memoria la nebbia torna sovente, come non ricordare quella agli irti colli che piovigginando sale ed il maestrale del buon Giosuè e quella del sempre “gioviale” di Giovanni Pascoli: Nascondi le cose lontane, tu nebbia impalpabile e scialba, tu, fumo che ancora rampolli….. e tu vai a spiegare alla Prof.ssa che i rampolli in quei termini non li capisci, cosa centrano i rampolli??. E allora rileggi e scopri che in questo caso significa scaturisci. E allora ditelo perbacco. E poi ci si mette anche Guccini: Ma a notte la nebbia ti dice di un fiato che il dio dell’inverno è arrivato. Ma le nebbie attuali non solo non fanno più paura, sono fuffa con quelle dei nostri tempi e dei nostri ricordi, ma addirittura “rampollano” bellissime rimembranze..  GIU.BA.

LA NEBBIA: E la nebbia che bellessa, la va giò per i pulmon, Giovanni D’Anzi. L’altra mattina mi son svegliato e ho trovato …..la nebbia. Era tempo che non la vedevo eppure è stata la mia compagna di vita per moltissimi anni. Le belle nebbie autunnali e invernali, la galaverna, i pomeriggi milanesi dove alle 5 della sera il mondo scompariva e restavano solo quegli aloni gialli dei lampioni o delle vetrine dei negozi. E qui torniamo al mio recente discorso sul silenzio, la nebbia è amica del silenzio, tutto diventa ovattato, silenzioso. Portai la allora mia fidanzata a mangiare il pesce in riviera, ma appena fuori dal Turchino, sulla via del ritorno, ci trovammo inghiottiti da uno di quei nebbioni da tagliare con il coltello, come si diceva, quindi testa fuori dal finestrino per vedere la riga di mezzaria della strada. Una sera partii da Voghera per tornare a casa a Casteggio e il nebbione mi impediva di vedere la strada, era una nebbia cattiva, cupa, angosciante fino poi ad accorgermi che il riscaldamento del parabrezza era spento e quella che vedevo non era la nebbia ma il vetro appannato. Il mio mentore Paolo Conte la nebbia la canta così: È grigia la strada ed è grigia la luce. E Broni, Casteggio, Voghera son grigie anche loro. C'è solo un semaforo rosso quassù. Nel cuore, nel cuor di Stradella. Che è quella città dove tutte le armoniche di questa pianura. Son nate e qualcuno le suona così. Ma anche nelle poesie di scolastica memoria la nebbia torna sovente, come non ricordare quella agli irti colli che piovigginando sale ed il maestrale del buon Giosuè e quella del sempre “gioviale” di Giovanni Pascoli: Nascondi le cose lontane, tu nebbia impalpabile e scialba, tu, fumo che ancora rampolli….. e tu vai a spiegare alla Prof.ssa che i rampolli in quei termini non li capisci, cosa centrano i rampolli??. E allora rileggi e scopri che in questo caso significa scaturisci. E allora ditelo perbacco. E poi ci si mette anche Guccini: Ma a notte la nebbia ti dice di un fiato che il dio dell’inverno è arrivato. Ma le nebbie attuali non solo non fanno più paura, sono fuffa con quelle dei nostri tempi e dei nostri ricordi, ma addirittura “rampollano” bellissime rimembranze.. GIU.BA.

FACCIO UNA DOCCIA E ARRIVO Quante volte andando a prendere un amico ci siamo sentiti dire al telefono: “OK, faccio una doccia e arrivo!” Come, faccio una doccia, vi sarete chiesti, è martedì, sono le cinque del pomeriggio e l’ultima volta che ci siamo sentiti era impiegato in banca, che faccia lo scavatorista e non me lo ha mai voluto confessare? Ma soprattutto non fa sport. Siamo diventati un popolo eccessivamente pulito a prescindere ma poi sarà così vero? Mi ricordo che in metrò, a volte anche di prima mattina, c’era da mettere la mascherina (recentemente l’abbiamo portata tutti) tale era il tanfo. Ma allora non è poi così vero che tutti fanno una doccia e arrivano. Da bambino a casa mia non c’era il bagno, c’era solo il “cesso” sul balcone di ringhiera e la mia mamma mi lavava nel “saeber”, nel mastello, mi lavava una volta alla settimana, solitamente il sabato pomeriggio, mi cambiava maglia e mutante dopo avermi spolverato di borotalco. Avevamo anche una casa in campagna, in un piccolo villaggio dove si passavano le vacanze estive e mia nonna riempiva una bigoncia di quelle piccole, praticamente un “navassö”:a questo punto devo fare una digressione perché qualche tempo fa ho scoperto che un mio interlocutore (un ragazzo di Milano*) non sapeva cosa fosse una bigoncia,( recipiente, usato in viticoltura, della capacità di circa 150 litri di legno per pigiare l’uva con i piedi) detta anche navassa e ho impiegato un po’ per fargli capire che una volta le galline erano libere e “vestite” e non nude come le vedeva lui nel banco frigo del supermercato e si chiamano ruspanti perché razzolano nell’aia ma anche sul mucchio di letame. Ma torniamo alla nonna che riempiva metà questo navassö (piccola bigoncia) di acqua e lo lasciava al sole nei caldi meriggi di agosto e, quando l’acqua diventava tiepida, mi facevo il bagno in questa mia piccola piscina rustica. Le parti maggiormente interessate durante l’estate erano: le mani, sempre prima di magiare, la faccia al mattino e faccia, ascelle, gambe e ginocchia la sera soprattutto quelle parti che erano le più sporche del corpo e le più ferite. Ora tutti hanno la mania della doccia: “hai fatto la doccia?”, “mi faccio una doccia? Anch’io mi faccio la doccia parecchie volte, d’estate più sovente, mi lavo con cura tutte le mattine anche se preferisco ancora un bel bagno per immersione in una nuvola di schiuma e musica di sottofondo. Ma per alcuni la doccia è diventata quasi una ossessione; ma saranno poi così puliti come vogliono farci credere: belli puliti e profumati? Bho!!! Ho i miei dubbi. * Di questo ho le prove:venne in visita  un gruppo oratoriale di Milano e li portai in una nota azienda agricola di Casteggio (Crotesi) e li videro le galline vestite e anche degli asini e mi chiesero se gli asini sono aggressivi e attaccano. “Si i tacan a rid” disse la moglie del fattore “Scoppiano a ridere” soprattutto se sentono certe domande. Sempre per bontà vostra GIU.BA.

Condividi questa pagina